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L’amore incondizionato di Pietrangelo Buttafuoco per la sua “Buttanissima Sicilia”
30 Lug 2014 08:42

Ieri, come oggi, come domani. La “Buttanissima Sicilia” di Pietrangelo Buttafuoco potrebbe essere un non luogo, risparmiato dal tempo. Se non fosse per una storia generosa ma sempre gravida di fattacci. Con la sua ricca iconografia. C’è pure un’agenda rossa che in realtà era solo un parasole.  Ed i suoi legittimati paradossi. Primo fra tutti la mafia dell’antimafia.

Senza scomodare l’adagio gattopardesco, l’immota mutevolezza dei contesti, nel susseguirsi delle stagioni storiche e politiche, le dona un comun drammatico denominatore:  terra sempre di sopravvivenza e mai di vita. Terra di accattonaggio di risulta, abituata a raccogliere le monetine bollenti lanciate dal balcone dal Mastro di turno, ingolfato di “roba” e col ghigno acre stampato sul volto. Quel mastro che non ha altro desiderio che trasformare i nemici in “traditori amici”. Zona di transito stanziale insomma, per predoni d’ogni foggia, incapaci di costruire valore su tanta bellezza che non sia una rendita individuale. E naturalmente per i propri clientes.

Solo il disincanto di un grande amore tradito può produrre pagine così affettuosamente rabbiose. Durissime ma non rancorose, un dolore elaborato ma non rassegnato, una sorta di flusso di coscienza mai staccato dall’attualità di ieri, come oggi, come domani. A muovere la penna di “Buttanissima Sicilia – Dall’autonomia a Crocetta tutta una rovina” (Bompiani) di Pietrangelo Buttafuoco, siciliano, giornalista  prima ancora che scrittore, nato in provincia di Enna 51 anni fa e cresciuto a Catania, è la consapevolezza calviniana di un inferno abitato tutti i giorni, che si forma stando insieme, forgiandosi in una dimensione che è un mondo a sé, altro dall’Italia ma così dannatamente italiano. Tanto che è pure lo stesso autore a fare mea culpa: “Siamo tutti complici e tutto voglio fare tranne che portare acqua al mulini dell’antipolitica. Anzi, lo stato in cui versa la Sicilia oggi esige una risposta fortemente politica”. E’ il commissariamento che Buttafuoco chiede al presidente del consiglio Matteo Renzi. Perché lo Statuto, “sarà pure nella Costituzione, ma questo privilegio, frutto dell’unica e vera trattativa Stato-mafia, può essere tagliato con un colpo di penna. E di coraggio”.

La madre di tutte le colpe è quindi l’autonomia regionale “fonte di sprechi e burocrazia”, la palude che tutto trattiene in un magma indistinto dove pasce un parassitismo cui, per un originalissimo e rodato disciplinare di cattive prassi,  dovrebbero riconoscere la denominazione d’origine. “E’ diventata una fogna per un esercizio di potere – dice Buttafuoco – che ha ridotto al lumicino questo pezzo pregiato, questo grumo di equilibrio che per secoli è stata quest’isola rispetto al Mediterraneo”.

Tanto da trasformare ogni appuntamento elettorale in una fabbrica di dipendenti pubblici. “Un’infornata di clienti” senza controllo, sottolinea, sciorinando nomi e numeri di enti prodotti dal ceto politico del momento, attivissimo nella formazione di disoccupati professionali. Mentre la regione perde pezzi importanti di industria: non c’è più la Fiat a Termini Imerese né la Stm, a Catania, nessuno investe più qui, perché tutti hanno paura di tutto.

Colpa della sinistra e della destra che non c’è, una sinistra che predica redenzione e razzola nel bluff di quella “religione civile altrimenti nota come antimafia”. Da Mastro Don Gesualdo, come Buttafuoco appella Raffaele Lombardo senza mai nominarlo, al “palinsesto” di Crocetta, che non è una rivoluzione,  tutto cambia per non cambiare: “Sono due facce della stessa medaglia – dice Buttafuoco ma ci vuole tempo ed esperienza per distinguerle bene”. Come tempo c’è voluto per smascherare la mafia dell’antimafia, “la madre di tutte le imposture” quella in cui “il tessuto dell’impegno civile si ricama con gli intarsi della legalità da declamazione”. Tanti morti innocenti diventati pretesto per le carriere dei vivi. “Abuso sui martiri…profanazione”.

Tanto da portare l’autore a rimpiangere la “visione strategica” di Nicolosi e a scrivere “mai avrei pensato di provare pena per lui”. E quel lui è Cuffaro, presidente della Regione siciliana dal 17 luglio 2001 al 18 gennaio 2008, condannato definitivamente a sette anni di reclusione per favoreggiamento, l’unico in galera a pagare per tutti. E simpatia per Crisafulli, detto Mirello, che dichiarò in passato di essere sicuro di vincere le elezioni ad Enna con qualsiasi sistema elettorale, persino con il sorteggio: “Se non ci fosse stato lui quelle quattro cose che ci sono nell’Ennese, una zona poverissima, non ci sarebbero. Certo, la sua gestione è, usando un eufemismo, decisionista. Ma è a quel cipiglio che dobbiamo la  nascita dell’università e di tante piccole e sofferenti realtà imprenditoriali”. 

Perché in Sicilia chi fa politica o impresa ha solo due possibilità: “la galera o il fallimento”. Ma c’è anche una terza via: l’annacamento. Quel dondolare, che taluno ha trasformato in metodo politico che consiste “nell’ottenere il massimo movimento dal minimo spostamento”. Con l’intento di fare meno danni possibile… a se stesso. Siamo sempre nel terreno fertile dell’antimafia “la mascherina di chi fa politica facendo finta di non fare politica (…) un travestimento drammatico di coraggio e  abilità”.

Antimafia che vai, elezioni che trovi. Ieri, come oggi, come domani.


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