Le cosche della ‘ndrangheta radicate in Lombardia e smantellate con la maxi-operazione ‘Infinito-Tenacia’ del 2010 avevano creato “proficui rapporti” con “uomini dello Stato”, tra cui politici, appartenenti alle forze dell’ordine e manager della sanità.
Lo si legge nelle motivazioni della sentenza con cui, lo scorso giugno, la Corte d’Appello di Milano ha confermato le condanne, seppure con qualche lieve riduzione di pena, per una quarantina di imputati arrestati quattro anni fa, tra cui il presunto boss Giuseppe ‘Pino’ Neri e l’ex dirigente dell’Asl di Pavia Carlo Chiriaco.
Al primo sono stati inflitti 18 anni di carcere e al secondo 12 anni. Il collegio della prima sezione, presieduto da Marta Malacarne, nelle oltre 800 pagine di motivazioni, da poco depositate, spiega, in primo luogo, che nell’ambito di “una sorta di rapporto di franchising”, sebbene le cosche lombarde agissero in autonomia, “la Calabria è proprietaria e depositaria del marchio ”ndrangheta’, completo del suo bagaglio di arcaiche usanze e tradizioni, mescolate a fortissime spinte verso più moderni ed ambiziosi progetti di infiltrazione nella vita economica, amministrativa e politica”.
Per questo la stessa “infiltrazione mafiosa nelle aziende della famiglia Perego”, importante impresa lombarda nei settori edili e del movimento terra, era “seguita” – scrivono i giudici – “con attenzione dalla ‘madre patria’ anche in previsione delle prospettive attribuite a Expo 2015”.
L’ex manager della Asl di Pavia Chiriaco, invece, svolgeva il ruolo di “stabile punto di riferimento per convogliare i voti controllati dall’associazione sui candidati in più tornate elettorali amministrative”.
Nelle motivazioni, tra l’altro, c’è un lungo elenco di “pubblici funzionari”, ma anche di membri delle forze dell’ordine con cui le cosche avrebbero intrattenuto rapporti. Tra i “proficui rapporti” che le cosche della ‘ndrangheta in Lombardia avrebbero intrattenuto con “uomini dello Stato” c’è anche il “contributo informativo” fornito alla mafia calabrese da un “appartenente alla Direzione Investigativa Antimafia di Milano, purtroppo ad oggi rimasto non identificato”.
Lo scrivono i giudici della Corte d’Appello milanese nelle motivazioni della sentenza a carico di una quarantina di imputati arrestati nell’operazione ‘Infinito-Tenacia’ del luglio 2010. La Corte elenca alcuni di questi “uomini dello Stato” e spiega, ad esempio, che “gli affiliati del locale (ossia della cosca, ndr) di Desio” erano in rapporti con l’ex assessore regionale lombardo Massimo Ponzoni.
Inoltre, il collegio scrive che nel procedimento “sono stati analizzati i rapporti degli imputati con altri pubblici funzionari”, tra cui “Corso Vincenzo, ufficiale giudiziario in servizio a Desio”, “Marando Pasquale, ispettore dell’Agenzia delle Entrate” e “Pilello Pietro”, all’epoca “presidente del Collegio dei revisori dei conti della Provincia di Milano”.
E poi “rilevantissima”, secondo i giudici, “l’infiltrazione nella società a completa partecipazione pubblica Ianomi, che raggruppa circa quaranta comuni della Valle dell’Olona e del Seveso, ed ha come oggetto sociale la gestione delle reti idriche”.
E poi ancora i “rapporti di Strangio Salvatore con il colonnello in pensione Giuseppe Romeo e con l’ispettore della Polizia stradale di Lecco Alberto Valsecchi”.
Nelle motivazioni si parla anche di un “sequestro illegale” di un’auto da parte di “agenti della polizia di Stato di Torino” ottenuto da uomini vicini al presunto boss Domenico Pio. Un pentito poi ha raccontato di “un appartenente alla Guardia di Finanza che aveva fornito loro notizie di arresti imminenti” e di “rapporti privilegiati con il comandante della Polizia locale di Erba” e con “Nardone Carlo Alberto, ex ufficiale dell’Arma dei carabinieri”.
Altri “proficui rapporti”, spiegano i giudici, “sono rimasti nell’ombra” e se ne “desume l’esistenza” dai molti “episodi di fuga di notizie” nel corso dell’inchiesta.
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