Incontro Marcello Maietta in un tardo pomeriggio di marzo in un bar non lontano dal centro storico della città d’origine di entrambi, Forlì, nel cuore della Romagna. Una pioggia quasi incessante intervallata da brevi schiarite a fare da sfondo e una leggera musica di sottofondo hanno accompagnato la nostra chiacchierata. Dopo un esordio al cinema con “Il figlio più piccolo” diretto da Pupi Avati, l’abbiamo recentemente visto ne “Il paradiso delle signore”, la fiction di Rai1 che ha raccontato con leggerezza ma anche con una grande efficacia emotiva la storia di un grande magazzino nella Milano degli anni cinquanta. Quello che colpisce di Marcello Maietta è la straordinaria semplice umanità attraverso cui si racconta, qualità non di poco conto per un giovane che ha fatto delle sue passioni il suo mestiere. Abbiamo parlato dei suoi esordi, di ricordi, di un Sud che è parte integrante della sua vita, di un mondo, quello dello spettacolo, affascinante ma anche molto complesso, ma soprattutto di emozioni e di vita. Marcello Maietta è, oltre che un’anima ribelle, una persona, vera, ha fatto anche del sorriso la sua filosofia, perchè il sorriso nella vita è importantissimo e saperlo portare è ancora più straordinario, perché attraverso una risata si riesce a comunicare anche qualcosa di profondo.
Chi è Marcello Maietta?
E’ un giovane ragazzo, semplice, pieno di vita e di speranza. E’ un 27enne che sta cercando di costruirsi un percorso nel modo migliore possibile. Il mondo del cinema è un un mondo estremamente affascinante, ma altrettanto complesso, dove non sempre il merito viene premiato. Sta facendo tesoro di tutto quello che gli sta accadendo intorno perchè profondamente convinto che lo studio, l’onestà e il merito possano permettere di avere ancora un futuro in questo Paese. E’ nato a Forlì, una piccola città della Romagna, anche se di padre napoletano e madre palermitana. Il teatro, il piccolo e grande schermo, in generale l’arte, l’hanno sempre rapito. Non ha mai sopportato chi promette senza mai mantenere. Marcello Maietta è un ragazzo che sta costruendo ancora le fondamenta della sua casa; ci sta mettendo diverso tempo a dire il vero, ma crede fermamente che i sacrifici fatti daranno i propri frutti.
Sei un giovane attore, ci racconti com’è nata questa passione per la recitazione?
E’ tutto nato per gioco. Avevo cominciato con la musica; mio padre è editore musicale, mia madre e mio fratello hanno sempre suonato. All’età poi di 15 anni circa, ricordo di essermi preso una vera e propria cotta per una ragazzina che di me non voleva proprio saperne e per farmi passare quell’infatuazione anziché rinchiudermi in una discoteca, ho iniziato a fare teatro, esattamente al Piccolo di Forlì. Da quel momento, tutto è cambiato. Il teatro mi ha permesso di scoprire sempre più me stesso, permettendo di confrontarmi con i personaggi che andavo ad interpretare; mi ha fatto capire quanto fosse importante non fermarsi alla superficie delle cose, ma andare oltre.
Ti abbiamo visto recentemente ne “Il paradiso delle signore”, la fiction targata Rai1, campione d’ascolti. Qual è stato il segreto del suo successo secondo te?
Posso dirti che sono stato contentissimo dell’affetto del pubblico! C’è stata una preparazione molto attenta e puntuale da parte di tutti, il soggetto e la sceneggiatura sono stati davvero ottimi, scritti da coloro che hanno anche vissuto quella realtà. La vera scommessa era il cast, un gruppo di giovani attori che si sono ben documentati, oltre che sui propri personaggi, sul periodo storico, assetati non di successo, bensì di cercare di dare il proprio contributo per un racconto che avrebbe suscitato forti emozioni. L’amore tra il pubblico e “Il paradiso delle signore” credo sia nato nel momento in cui è emersa l’onestà della sincerità che c’è stata nel raccontare questa storia, perchè erano esattamente quelle le atmosfere e le sfumature emotive del dopoguerra.
La fiction ci ha raccontato l’Italia del dopoguerra, un Paese che andava ricostruito e il successivo boom economico, in particolare Milano. Come ti sei preparato per questo ruolo e che idea ti sei fatto di quegli anni?
Per interpretare Giovanni, mi sono ispirato molto a mio nonno, per me un esempio di uomo che ha partecipato alla seconda guerra mondiale per poi entrare nella polizia stradale. E’ stato un uomo che per necessità ha lasciato il suo Sud per poi trasferirsi a Forlì; è sempre stato un modello per me, per la sua grande umiltà in particolare. Posso dirti che nel momento in cui mi è stato proposto questo ruolo, ho detto subito di sì, indipendentemente dalla storia. Credo davvero che quel periodo sia stato stupendo, perchè è il lasso di tempo in cui c’è stata una vera e propria evoluzione umana. Mi piaceva molto l’idea di poter fare un film in costume, anche se ne avevo già fatto uno su Pasolini in cui vestivo i panni di Ninetto Davoli, in cui ho recitato in dialetto romano, senza esserlo di nascita. Erano anni in cui il Paese stava piano piano ripartendo, gli anni del boom economico ma soprattutto quello che mi ha sempre colpito era la felicità delle persone, in cui anche un povero poteva permettersi di accennare un sorriso; erano anni di rinascita, di luce ma anche di rivoluzione, perchè il vero cambiamento consiste proprio nel creare qualcosa di nuovo e quel periodo è stato completamente progressista.
Cambiando argomento, tu e la musica?
La musica fa parte della mia vita da sempre, è sicuramente un valore aggiunto, un’abilità che faccio in modo coinvolga in qualche maniera anche la recitazione. Il progetto indie rock “Sudestrada” è partito da un progetto cinematografico che avevo scritto insieme a un altro membro del gruppo, ovvero quello di fare la colonna sonora di un nostro progetto. Ben presto ci siamo ritrovati a comporre, da una sorta di scherzo è nato un progetto che sta andando molto bene. Abbiamo infatti anche appena finito un tour e ne siamo rimasti davvero entusiasti. La musica, esattamente come il cinema, può dare quella carica di energia che a volte può mancare, oltre che essere una vera medicina dell’anima.
A soli 21 anni hai preso parte a “Il figlio più piccolo”, diretto da Pupi Avati, uno dei registi più carichi di umanità del nostro cinema. Cosa ricordi di quell’esperienza? Cosa voleva dire per un giovane attore essere diretto dal Maestro?
Pensa che ancora oggi fatico a crederci! Posso dirti che lui mi ha dato il terreno per costruire la mia casa, anzi me l’ha regalato senza volere niente in cambio, credendo in un giovanissimo ragazzo di provincia che era a Roma da pochi mesi. Ha creduto nella mia spontaneità e non posso far altro che dirgli Grazie. Dovevo interpretare un ragazzo più grande della mia età effettiva, ovvero un 25enne ed è stato il primo regista che mi ha dato una responsabilità molto più grande di quella che mi aspettavo. Il suo è un cinema capace di raccontare la straordinaria semplicità del quotidiano, un cinema che ha un valenza anche etica, che racconta una storia che permetta allo spettatore di identificarsi e sentirsi in qualche modo il protagonista. Dopo questo film, sono entrato al Centro Sperimentale di Cinematografia a Roma.
Nella tua pagina della tua agenzia, leggiamo: “Ho trascorso i miei giorni smontando le cose e ricostruendole, senza chiedere come si fa. Un ribelle deve esserlo, almeno in una certa misura, anche a se stesso”, da “Il Ribelle”. Posso chiederti perchè proprio questa frase? La ribellione più essere vincente per un artista?
Essere ribelle, senza essere un anarchico. Ognuno è ribelle nel momento in cui dice la sua, e posso dire che Pier Paolo Pasolini aveva ragione. Essere ribelli a se stessi non significa rifiutare qualsiasi tipo di regola, anzi; credo che la vera liberà sia quella di non uniformarsi alla massa pur stando all’interno delle regole che la società ci delinea. Secondo me, il vero talento sta nelle scelte che ognuno di noi fa. A volte bisogna avere il coraggio di dire no, anche se nel mondo dello spettacolo non è così semplice, anche perchè la possibilità di sperimentarti e anche di crescere professionalmente non ti viene data da tutti. Questo mestiere ti permette di avere la capacità di essere camaleontico, di metterti costantemente in gioco, fino anche ad oltrepassare limiti che sembravano invalicabili, senza mai considerarti “arrivato”. Quello che più mi dispiace è che i più pensano che questo mestiere sia solo un divertimento dettato da un ego spropositato, ma non è così. E’ esattamente un lavoro come un altro, essere un attore è come essere un artigiano. Ognuno di noi deve riuscire a essere sé stesso e quando sei te stesso, sei già un ribelle. Ognuno di noi deve avere la capacità di scegliere e non di farsi scegliere, è questa la vera libertà.
Quest’intervista verrà pubblicata in Resto al Sud. Qual è il tuo rapporto con il Sud?
Il Sud è il mio sangue, sono i miei nipoti, la mia famiglia. E’ la vestaglia di mia nonna che svolazzava qua e là con il vento, è l’odore dei panni stesi al sole, il profumo dei gelsomini che invade chiunque. Il Sud è un sorriso che non ti aspetti di ricevere, è il sole, il mare, è la strada. E’ verità, spontaneità. Il Sud per me è la vita che può farti scendere una lacrima nel momento in cui, per varie ragioni, devi affrontare una sfida molto importante, ma anche la vita che può regalare la speranza e la voglia di non mollare mai. Il Sud a volte diventa sinonimo di abbandono e solitudine, ma non credo sia così; ho moltissimi parenti che non se ne sono andati, ma che anzi sono rimasti lì, perchè credono che qualcosa possa davvero cambiare. Comprendo però anche chi lascia quelle terre per lavoro, per studio o per darsi comunque una possibilità in più; quello che non capisco è perchè alcuni lascino il Sud per andare all’estero. Il nostro è un piccolo e grande Paese, ecco perchè dobbiamo resistere e combattere se necessario, per far sì che bellezza che abbiamo non venga dimenticata e lasciata marcire.
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