Se fotografare significa, letteralmente, scrivere con la luce, gli scatti artistici di Carla Cantore sono piccoli, grandi, capolavori. Romanzi ideali che disvelano la complessità di una contemporaneità fragile, talvolta invisibile, ma profondamente reale. Fragilità e precarietà, sentimentale ed esistenziale, come elementi descrittivi, e ormai costitutivi, delle più giovani generazioni di oggi che hanno imparato a convivere con la paura del fallimento e la natura di un cambiamento molto evocato, ma non ancora pienamente sperimentato.
In un mondo, per parafrasare le parole di Wim Wenders, “a colori, ma (nel quale, nda) la realtà è in bianco e nero”, anche per le contaminazioni provocate da una aggressiva e poco etica “società del consumo”, le fotografie di Carla Cantore accompagnano l’osservatore in un cammino “oltre il buio”. Le abbiamo, perciò, rivolto alcune domande per meglio conoscere il suo intenso percorso artistico.
Cosa ti ha spinto nel 2011 a riprendere in mano la macchina fotografica?
Nel 2011 ho avvertito la forte l’esigenza sia di comunicare le mie emozioni e di dare libero sfogo al mio mondo interiore, sia di cogliere la realtà che mi circondava con i suoi protagonisti. Ho deciso, quindi, di riprendere ciò che fin da piccola mi ha sempre affascinato, la fotografia.
Cosa è per te la fotografia e qual è il messaggio artistico che vorresti fosse compreso? Quali le emozioni che vorresti far vivere in chi ammira un tuo scatto? Quanto il tuo linguaggio è ispirato dalla poesia, altra arte da te amata, o dalla città, Matera, nella quale vivi e lavori?
Per me, prima di tutto, la fotografia è uno specchio del mio mondo interiore. Essendo molto curiosa, rappresenta quella parte di me sempre alla ricerca del senso delle cose, della conoscenza del mondo e delle persone. In questo modo, la fotografia diventa per me anche una forma di terapia. Mettendoci l’anima, sono contenta quando uno dei miei scatti riesce a provocare una emozione.
È fondamentale, tuttavia, avere uno sguardo sul mondo flessibile e mutevole vivendo oggi in una realtà liquida e cangiante. Mi aiuta molto, quindi, non solo la poesia, ma anche il teatro, per la loro capacità di raccontare il tempo che viviamo. E ovunque vada, porto Matera, la mia città – attualmente attraversata da profondi cambiamenti – nel cuore, in quanto rappresenta le mie radici e quello che sono oggi.
Per la tua sensibilità, ti sei occupata anche di migranti. Ed oggi, soprattutto davanti ai quasi quotidiani genocidi perpetrati tra il Mediterraneo e i nostri confini, ci sono scatti emblematici e dolorosi che comunicano “la bancarotta dell’umanità”, per dirla con le parole del Papa, più di mille parole. Di più. Le parole sembra non abbiano più un senso. Ci restano solo certe immagini. Cosa ne pensi?
La migrazione è una piaga sociale e troppo spesso dimentichiamo che ci troviamo davanti a uomini, donne e bambini come noi. Se loro potessero, rimarrebbero nelle loro città, nelle loro case, continuerebbero a condurre la loro vita e a sperare di essere seppelliti dove sono nati insieme ai loro cari. La fuga non è una scelta, ma è il loro unico modo per cercare di sopravvivere e per trovare un mondo migliore. I fotografi cercano con i loro scatti di raccontare queste storie di amore e di terrore, di paura e di speranza, di razzismo e di solidarietà. La fotografia è il linguaggio di un padre, talvolta anche intimidito, che scappa col figlio su barche fatiscenti; di un bambino che annega o che attraversa un filo spinato; di una donna incinta esausta dalla traversata, ma contenta per essere sopravvissuta. La fotografia, più di mille parole, può infondere speranza.
Dal progetto “Materia” del 2014 al più recente “Mirrorless” quanto è cambiata Carla, se è cambiata, e come la sua fotografia prova a esplorare le complessità della realtà e a indagare il mistero dell’animo umano?
Sono cambiata sicuramente. Le esperienze di vita che ho avuto in questi ultimi anni, ma soprattutto i mesi trascorsi con i pazienti del Centro per la cura dei Disturbi del Comportamento Alimentare e del Peso “G. Gioia” di Chiaromonte, mi hanno fatto crescere molto. Ho incominciato ad amare ancor più l’animo umano, la sua complessità e la sua varietà. Per quanto ne riconosca la difficoltà, mi sono preposta di conoscerlo meglio, cercando di indagare le ragioni che portano a una crescente sofferenza per poter aiutare a trovare le risorse interiori capaci di affrontare i vari disagi che nascono. Per questo, appena terminato questo percorso, mi sono iscritta al corso di formazione triennale di arte-terapia a Roma.
Il progetto “Mirrorless”, ossia il tuo primo libro fotografico, nasce dal tuo incontro con ragazzi e ragazze affetti da disturbi alimentari. Perché hai voluto raccontare questa sofferenza, concausata anche da un modello sociale e culturale che sembra non metta più al centro la dignità e la felicità della persona? Come nasce, inoltre, la campagna di crowdfunding per la sua pubblicazione?
Ho voluto parlare del disagio perché l’ho vissuto in prima persona e per questo ho voluto contribuire in prima persona con questo progetto fotografico. Io non ho voluto parlare del disagio del comportamento alimentare o della sofferenza che forse tutti o quasi conoscono. Ecco l’obiettivo di questo mio lavoro: raccontare, attraverso le immagini, il processo evolutivo, da quello emotivo a quello fisico, ma anche della forza e del coraggio di chi decide di affrontare un simile percorso terapeutico. Per insegnare alle nuove generazioni ad amarsi, a rispettare se stessi e il proprio corpo. Il corpo inteso come la casa della propria anima. Se anche una sola delle mie foto, quindi, riesce a veicolare questo messaggio, io ne sarò molto felice.
La campagna di crowdfunding (qui l’indirizzo per poter sostenere l’iniziativa) nasce, infine, dalla esigenza di veder stampato il mio libro fotografico. Non è solo il mio sogno, ma anche quello dei pazienti che hanno scelto di partecipare a questo progetto. Per questo spero si riesca a raggiungere l’obiettivo e per poter continuare a raccontare simili storie.