Se anche le aziende straniere si uniscono alle critiche, allora la Cina soffre veramente di un deficit di immagine. Il coro delle lamentele e degli attacchi sta diventando più rumoroso.
Le aziende denunciano la violazione della proprietà intellettuale e l‘eclatante differenza di trattamento rispetto alle imprese locali. Queste, viene sostenuto, sono favorite nelle gare pubbliche, non devono pagare gli addetti secondo i contratti, possono violare gli standard ambientali.
Ultimamente le multinazionali più famose, quelle la cui sofisticazione la Cina non riesce a eguagliare, sono state messe sul banco degli accusati per scarsa assistenza alla clientela, violazione delle misure di sicurezza, corruzione.
Al di là delle accuse, che non si riescono a verificare, colpisce la metodicità dell’attacco, come se rispondesse a un piano preordinato o a un desiderio finora represso. Di conseguenza, si è arrivati ad una situazione inimmaginabile fino a qualche anno fa: le aziende straniere prendono le distanze dalla Cina.
Un matrimonio che sembrava inossidabile, seppure basato sul solo interesse, è messo a dura prova da una collana di dispute che si allunga giornalmente. Così i dubbi sul modello cinese si rafforzano.
Relegate per decenni alla sfera di sociologhi, politici, difensori dei diritti umani o sindacali, le critiche valicano i tradizionali steccati e investono la Cina proprio nel compito che ha svolto finora al meglio: generare ricchezza reciprocamente utile, una classica win-win situation.
Sebbene gli imprenditori siano gli ultimi a disilludersi e pongano spesso i calcoli nelle priorità, non c’è dubbio che il loro giudizio getti delle ombre sulla complessità del modello cinese.
Al di là delle espressioni di circostanza (collaborazione, dialogo, multilateralismo) la domanda da porsi veramente è se la Cina, con i suoi spettacolari successi, abbia qualcosa da insegnare. Il suo modello è replicabile?
I valori che da esso derivano sono imitabili e validi per tutti? Nelle risposte si addensano i dubbi. Pechino ha seguito con percorso proprio un’impostazione tradizionale: la produzione di manufatti a basso costo attraverso un gigantesco afflusso di investimenti, sia nazionali che stranieri.
Le esportazioni e le accumulazioni di valuta sono state due conseguenze. Più che export-led, la sua crescita è stata investment-led. Negli anni, questo modello ha prodotto grandi risultati ma parecchie ingessature. Il paese ha battuto tutti i record economici, ma non si è distinto per innovazione, etica, democrazia.
I suoi difensori sostengono che si tratti di un inevitabile passaggio storico, ma ora anch’essi si interrogano sul costante rinvio di una fase successiva, nella quale la ricerca della quantità si arricchisca di contenuti differenti.
Anche il nuovo leader ha riconosciuto la sostanza del problema, quando ha denunciato ‘l’ossessione della crescita del Pil‘.
Effettivamente ci si domanda quante autostrade potrà ancora costruire la Cina, quante dighe, quanti primati dovrà raggiungere nella produzione di calzature, cemento, vetro, acciaio e carbone.
Xi Jin Ping sa bene che sarebbe necessaria una virata, ma ha ereditato una situazione bloccata, con un tragitto avviato e una serie di posizioni contrastanti e conservatrici. Cambiare non sarà agevole, ma si presenta come una necessità.
In questo quadro, la simpatia internazionale flette e anche le aziende si lamentano. Anche chi aveva guardato con speranza alle novità della Cina, alla possibilità di una diversa molla degli interessi, si rifugia nel disincanto.
Le aziende subiscono, negoziano, cedono, perché sanno che i rapporti di forza ora sono cambiati. Hanno tratto vantaggio dall’arretratezza della Cina alcuni decenni fa; ora il Dragone è cresciuto ed ha maggiori capacità negoziali.
Ironicamente, fanno eccezione i giovani manager dei paesi industrializzati, spediti in Oriente per esclusive funzioni di business. Per loro la Cina è soltanto il più importante paese in crescita, capace di incrementare la catena del valore, facile approdo per la delocalizzazione o le vendite.
Ne accettano le regole, anche quando sono spiacevoli. Non chiedono ideali irrealizzabili, una diversità che non auspicano. Considerano la Cina un attore come gli altri, anche se così dimenticano la lezione della storia che i cinesi custodiscono di più: la sicurezza della propria diversità, la convinzione che ciò che è valido per la Cina è valido solo per la Cina.