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Intervista a #LinoGuanciale, un attore dall’eleganza di altri tempi
04 Gen 2016 08:20

Abruzzese di origine, Lino Guanciale si è diplomato all’Accademia Silvio D’Amico di Roma, prima di iniziare una brillante carriera. Con un passato da rugbista, arriva al piccolo schermo con un sostanzioso curriculum teatrale ed esperienze cinematografiche importanti partecipando  a popolari fiction che gli hanno dato notorietà tra il grande pubblico come “Che Dio ci aiuti”, “La Dama velata” e “Una grande famiglia”.

Il suo è un successo meritato, fatto di sacrifici e determinazione,  per entrare e per continuare a star nel complesso ingranaggio del mondo della recitazione. La popolarità è arrivata con l’impegno e la dedizione nei confronti di un mestiere non così semplice, mantenendo  un’eleganza e una finezza, oramai purtroppo tipica solo di un gentiluomo di altri tempi.

Chi è Lino Guanciale oggi?

Un uomo che cerca di imparare ad essere libero.

Sei di Avezzano ma da molti anni non vivi più lì. Cosa rappresenta per te la terra abruzzese? Hai nostalgia di quei luoghi? Cosa ti manca?

La nostalgia per i luoghi della mia infanzia e dell’adolescenza mi accompagna sempre; in Abruzzo sono stato un bambino e un ragazzo felice. Quei luoghi mi mancano dovunque io vada, ma è bello averne solo ricordi dolci e importanti: è una cosa che rende forti, venire da un posto che ami.

Quest’intervista verrà pubblicata in Resto al Sud, una testata giornalistica molto attenta alle terre del meridione. Qual è il tuo rapporto con  il Sud?

La mia regione d’origine ha una storia decisamente Meridionale, e di fatto per mentalità e cultura io mi sento a tutti gli effetti un uomo del Sud. Del Meridione mi appartengono i riti, le consuetudini, i vizi e le virtù.

Perché hai scelto di fare l’attore? Cosa significa, oggi come oggi, fare l’attore?

Oggi fare l’attore, secondo me, significa fare i conti con una grande responsabilità sociale e culturale; si ha l’opportunità di fare presa su molte persone, e questo mette di fronte a due grandi necessità: da un lato quella di non passare messaggi diseducativi, dall’altra quella di aiutare le persone a confrontarsi con i problemi e le emergenze culturali del mondo di oggi. Un attore, per me, oggi, non può non considerarsi un operatore culturale.

Per ben dieci anni hai giocato a rugby, stando anche nella nazionale giovanile. Rugby e recitazione hanno qualcosa in comune? Cosa li differenzia?

Il rugby è lo sport di squadra per eccellenza, quello in cui la prodezza del singolo non può essere sufficiente e dove, per vincere, è necessario far funzionare il gruppo. In scena la dinamica è la stessa: il tuo lavoro si alimenta del buon lavoro di chi hai attorno, e per questo si è costretti a porsi il problema del buon funzionamento delle relazioni fra compagni… Il palcoscenico è una scuola di democrazia, sempre sul filo del rasoio. In fondo l’unica differenza con il rugby, forse… sono le “botte”!

Eri riuscito anche ad entrare a medicina. Perché hai preferito gli studi di recitazione rispetto alla professione di medico?

Fare il medico mi sarebbe senz’altro piaciuto: è il mestiere di mio padre, l’uomo che ammiro di più al mondo. Ma sentivo che non mi sarei mai liberato del rimpianto per non aver provato a recitare. Per non vivere schiavo della ambizioni e dei sogni frustrati, ho provato a “buttarmi” in un mondo professionale così lontano da quello che gli altri, e io stesso, immaginavo giusto per me. E per fortuna è andata bene!

Il cinema è arrivato nel 2009 e il piccolo schermo nel 2011, oltre che tantissimi spettacoli teatrali. Cosa ha di diverso il teatro rispetto alla macchina da presa? La tua vera casa è il teatro?

Casa mia sarà sempre il teatro: il contatto diretto con gli spettatori non è eguagliabile da alcuna altra emozione. Il cinema e la televisione mi stanno facendo togliere delle belle soddisfazioni, e mi diverto molto a lavorare sul set! Però l’obiettivo rimane quello: far venire a teatro più persone possibile, magari facendo leva sulla attuale popolarità.

In questa stagione televisiva ti abbiamo visto nel ruolo di Guido Corsi in “Che Dio ci aiuti” e  poi in Guido Fossà ne “La dama velata”. Quali aspetti del suo carattere ha inserito nel personaggio? In cosa, invece, siete diversi?

I due “Guido” sono tanto diversi: passionale e spaventato Fossà, innamorato della giustizia e “freddo” il buon Corsi; eppure in entrambi c’è tanto di me. Sono mie le loro fragilità, i loro dubbi, ed anche l’unica cosa che hanno in comune: l’ironia.

Per quali motivi, secondo te, queste due fiction Rai hanno avuto così successo?

A parte la fascinazione per le attrici e gli attori del cast, credo che sia perché entrambe, pur in modi diversi e con registri diametralmente opposti, hanno saputo mettere al centro della narrazione quel complesso di dolori, gioie, problemi e “misteri” con cui ognuno di noi quotidianamente si misura all’interno della famiglia.

Ti abbiamo visto anche nel ruolo di Ruggero Benedetti Valentini in “Una grande famiglia”, anche qui dando prova delle tue doti recitative. Cosa pensi di questo personaggio? Cosa ti ha lasciato?

Ruggero Benedetti Valentini è il primo vero personaggio che io abbia interpretato per la televisione: gli vorrò bene sempre, come al primo amore! Scanzonato e simpatico come lui, ecco come vorrei sempre essere. Il “Principe dei cessi” è il mio eroe: non si prende mai sul serio, e questa è forse una delle virtù più importanti al mondo!

Dal 2013, fai parte della Compagnia del Ratto d’Europa con la regia di Claudio Longhi. Ci racconti meglio di cosa si tratta?

Il lavoro che da anni faccio con Longhi e con la compagnia  è per molti versi distante da quello teatrale convenzionale. Noi operiamo su un territorio stabilmente! Ogni nostro progetto dura almeno un anno, e non si concentra solo sulla realizzazione di uno spettacolo che arriva solo alla fine del percorso, e per l’intero anno che lo precede, tentiamo di catalizzare l’attenzione di più cittadini possibile sulle tematiche che intendiamo affrontare, attivando laboratori, cicli di conferenze, letture, lezioni scolastiche e accademiche. L’obiettivo è costruire una specie di grande cantiere formativo in cui ogni cittadino può entrare per imparare o insegnare. Ad esempio, il progetto sulla Prima guerra mondiale “Carissimi padri”, in cui siamo attualmente impegnati a Modena (nostra area d’azione principale da qualche anno),  è iniziato a gennaio scorso e nel gennaio 2016 – un anno dopo, per l’appunto – terminerà con la messinscena di uno spettacolo dal titolo “Istruzioni per non morire in pace”;  l’intero percorso è composto da  tantissimi appuntamenti, tutti pensati con l’obiettivo di svolgere una funzione divulgativa storica su Grande guerra e Bellle Epoque, in modo da consentire alla cittadinanza di “ferrarsi” il più possibile su questi argomenti. Quando poi gli spettatori entreranno a teatro il 7 gennaio, data di debutto dello spettacolo, conosceranno così bene il nostro lavoro, avendo fatto un pezzo di strada assieme a noi, da poterci criticare con la maggiore puntualità possibile! Vogliamo tentare di dare alle persone gli strumenti per godere appieno dell’esperienza teatrale, tanto da riuscire a dare anche a noi attori il feedback più completo e lucido possibile. Personalmente questo è uno dei miei più grandi sogni: dare un contributo vero alla rinascita del pubblico teatrale nel nostro paese. A Modena i risultati ci sono già: tante persone che prima non avevano abitudine ad andare a teatro, oggi ci vanno… un bel risultato, credo.

Tieni lezioni all’università e laboratori nelle scuole su tematiche inerenti alla recitazione. Come pensi che l’arte possa formare? E nei ragazzi che hai di fronte trovi un riscontro positivo, un concreto interesse?

L’arte può insegnare moltissimo, quando rinuncia a salire in cattedra. Quando si parte dall’enorme potenziale che essa può avere si riscontra sempre una risposta positiva da parte degli studenti o in generale da parte delle persone “colpite”. L’essenziale, credo, è che gli artisti si muovano con umiltà, rinunciando alle tentazioni dell’elitarismo. Oggi c’è bisogno della più nobile forma possibile di un’arte  (e di un teatro, dunque) popolare.

Hai ancora un sogno nel cassetto?

Vorrei viaggiare di più. Spero di riuscire a vedere la Patagonia, prima o poi. Mi piacerebbe addormentarmi stanotte e risvegliarmi in un’Italia piena di giovani e non giovani che con entusiasmo collaborano per superare i propri limiti e costruire un paese… felice!

Nuovi progetti?

A parte il progetto teatrale “Carissimi padri”, (a proposito: siete tutti invitati a teatro a Modena a gennaio, mi raccomando!), nella prossima stagione ci saranno tre nuove serie in cui sarò presente come coprotagonista o protagonista: il poliziesco “Il sistema” (con Claudio Gioè, Gabriella Pession e Valeria Bilello), la commedia gialla “L’allieva” (con Alessandra Mastronardi) e un’altra bella commedia sentimentale di cui per ora non posso svelare nulla… comunque, tutti e tre i lavori andranno in onda su Rai1.


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