É un patrimonio imponente, eppure, nella maggioranza dei casi, ancora infruttuoso: secondo alcuni calcoli ammonterebbe ad alcune decine di miliardi, sfiorando l’ammontare di una manovra finanziaria. E’ il valore dei quasi 13 mila beni confiscati alle mafie in Italia, per l’esattezza 12946, di cui 11238 immobili e 1708 aziende. A censirli é stata l’Agenzia nazionale dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, istituita nel 2010 per garantire, attraverso una cabina di regia nazionale, una migliore efficienza.
A tracciare il solco era stata prima la legge Rognoni-La Torre, nel 1982, e poi la legge 109 del 1996 sul riutilizzo sociale. Un modo per restituire alla comunità i patrimoni illeciti, in un’ottica risarcitoria che non si è ancora compiuta. Proprio la richiesta di una revisione della normativa, sollecitata dallo stesso direttore dell’Agenzia, il prefetto Giuseppe Caruso, ha innescato nei mesi scorsi polemiche che hanno portato alle audizioni della Commissione parlamentare, antimafia guidata dal presidente Rosi Bindi, in corso a Palermo.
A guidare la classifica delle regioni con il maggior numero di beni confiscati é la Sicilia con 5515 beni; segue la Campania, con 1918, Calabria con 1811, Lombardia con 1186, Puglia con 1126 e Lazio con 645. Il 35% del totale dei beni confiscati (pari a 3995) sono ancora in gestione all’Agenzia nazionale, mentre il 52% (pari a 5859) sono stati destinati e consegnati a istituzioni o enti locali per utilizzarli in proprio o assegnarli ad altre associazioni che ne garantiscano il riutilizzo sociale.
Le criticità maggiori riscontrate nella gestione riguardano i lunghi tempi per l’assegnazione, sette anni in media, che creano un ulteriore costo nella gestione e nel loro mantenimento, trattandosi di beni spesso oggetto di atti vandalici da parte della criminalità organizzata. Secondo i dati dell’Agenzia nazionale, aggiornati al 31 dicembre 2012, dall’entrata in vigore della legge Rognoni La Torre sono state confiscate in via definitiva 1708 aziende. Di queste, 623 in Sicilia, 347 in Campania, 161 in Calabria e 131 in Puglia. Circa la metà operano nel commercio (471) e nelle costruzioni (477), seguite da quelle alberghiere e della ristorazione (173); 92 sono invece le aziende confiscate che operano nel settore dell’agricoltura.
Ma non mancano le attività immobiliari e quelle finanziarie, l’informatica e i servizi alle imprese, le imprese manifatturiere e di trasporto, quelle che si occupano di sanità e servizi sociali e persino le società di produzione e distribuzione di energia elettrica, acqua e gas. Le confische più recenti hanno riguardato, infatti, alcuni impianti fotovoltaici e parchi eolici in Sicilia, Calabria e Puglia. Quasi la metà delle aziende confiscate sono società a responsabilità limitata (796) seguite da imprese individuali (408), società in accomandita semplice (247) e in nome collettivo (141). Delle 1708 aziende confiscate in Italia, 497 sono uscite dalla gestione, mentre 1211 sono ancora in gestione dell’Agenzia nazionale. Nel caso delle aziende confiscate le maggiori criticità si riscontrano sul fronte bancario, con la revoca degli affidamenti che già nella fase del sequestro non consentono all’azienda di proseguire la propria attività.
Un altro tasto critico é quello dei rapporti con i fornitori, poiché spesso dopo il sequestro sono proprio i clienti a revocare le commesse e i fornitori a chiedere di rientrare immediatamente dei loro crediti. Ricollocata in un circuito legale, poi, l’azienda sconta l’inevitabile aumento dei costi di gestione relativi alla regolare fatturazione delle commesse e alla regolarizzazione dei rapporti di lavoro. La mancanza, inoltre, di risorse e competenze specifiche da parte degli amministratori e dell’autorità giudiziaria è un ulteriore problema che concorre alla chiusura dell’azienda e ai relativi licenziamenti dei lavoratori lamentati dai sindacati.