Dialogando di silenzio, partenze e restanze con Fabio Mollo, regista calabrese in cerca di risposte. In attesa della prima del film “Il Sud è niente”.
«Siamo figli di una diaspora». Spaccano il silenzio, cui siamo assuefatti da troppo tempo, le parole di un calabrese che proprio sulla lotta al silenzio sta facendosi conoscere a livello internazionale.
Fabio Mollo è reggino. Di più. È del Gebbione. Per chi è nato e cresciuto a Reggio Calabria, con la Sicilia dall’altra parte dello Stretto, che se allunghi la mano nei giorni della fata Morgana ti pare di poterla toccare, significa tutto. Ha l’imponenza dello stadio dove la domenica gioca la Reggina. Ha il frastuono degli ultras durante le partite ascoltate da fuori, o spiate dai balconi degli ultimi piani. Ha lo spazio dei campi che non ci sono più, mangiati dal cemento che nel tempo li ha cancellati, gli spazi. Ha il puzzo dei cassonetti dei rifiuti, uguali a tante istantanee italiane, ora non solo più del Sud Italia: quell’immondizia che dopo un po’ impari a non vedere più. Ha il calore del bar dell’angolo, del gelato conquistato, delle corse nelle strade con gli amici.
Non si vede il mare dal Gebbione. Non dalla strada. Ma si sente. Ti punge dentro. È un’urgenza. Come quella di superare altri mari. Di costruire altri scenari.
Fabio è nato nel 1980. Al Gebbione. Non ha ancora vent’anni quando supera un altro mare, quello della Manica, per laurearsi (nel 2002) in storia del cinema alla University of East London. Poi torna in Italia ma si ferma a Roma, per diplomarsi (nel 2007) in regia al Centro Sperimentale di Cinematografia. Nel frattempo inizia a sperimentare. Gratta, Fabio. Gratta il silenzio, cerca di trovare gli strumenti per comprenderlo. Per non averne più paura. E quindi per riuscire a combatterlo. Il suo primo cortometraggio – Troppo vento (2003) – fa il pieno di riconoscimenti. C’è un ragazzo che si siede al tavolino di un bar e origlia i discorsi sussurrati, le parole vuote e quelle piene, ma soprattutto quelle nascoste: quattro piccole storie di periferia umana in un unico piano sequenza. Dopo il laboratorio di sceneggiatura con Gabriel García Márquez continua il duello di Fabio Mollo con il silenzio. Nel 2009 lo imprigiona per la seconda volta: meno di mezzora di Giganti. La difficoltà di crescere dove la ’ndrangheta è parole e silenzi, è humus e dittatura, impregna di rabbia il cortometraggio vincitore di Cinemaster e il giovane protagonista, Pietro, quindicenne calabrese.
La diaspora. Un altro tema soffocato nel silenzio. Una diaspora cui assistiamo inerti sia quando i protagonisti sono extracomunitari che attraversano il Mediterraneo alla ricerca di una vita, sia quando ne siamo protagonisti. Restare o andare? Qual è il tradimento peggiore?
Fabio non ha risposte. Ha tante domande. Sono più importanti delle risposte, le domande. Abitano nel suo ultimo lavoro, il film che ha conquistato i più importanti festival del cinema: Toronto, Roma, Torino. E ora si sta per presentare al grande pubblico. Uscirà nelle sale il 5 dicembre. Ma prima deve tornare a casa. Dove è stato girato. Dove è nato, molto prima di diventare sceneggiatura, girato, montato. Dove è cresciuto come un pensiero fisso. Di quelli che studi da ogni angolatura per impadronirtene e scacciarlo per sempre.
A proposito di diaspore. L’anteprima nazionale, fuori dai circuiti delle rassegne cinematografiche, è tutta calabrese: il 3 a Reggio, il 4 a Cosenza e Crotone. Per iniziare a farsi domande. Per iniziare a combattere insieme quel silenzio che è il nemico giurato del Sud, di Fabio e di Grazia, protagonista interpretata da Miriam Karlkvist. Nata al Gebbione, chissà quanto per caso.
Racconta il regista: «Non ci siamo domandati tante cose, per troppo tempo. È arrivato il momento di iniziare a domandarcele, a chiederci il perché. Cercare la verità è un gesto semplicissimo che può diventare l’inizio di una rivoluzione». La rivoluzione inizia dal titolo. Il Sud è niente. Titolo scelto «per provocare, affrontando a testa bassa la tematica con l’obiettivo di ribaltarla: è un salto mortale. Abbiamo deciso di usare questa frase, che è la frase-manifesto di una mentalità di abbandono, rassegnazione e vittimismo, cui siamo stati educati per intere generazioni. Abbiamo scelto di usarla per provocare, per raccontare il ribaltamento di questa idea: le nuove generazioni stanno crescendo con la rabbia e la speranza di potersi affrancare da questo modo di vivere, di vedere il sud».
La rivoluzione torna su Pietro. Lo stesso nome di Giganti. Lo stesso tema. Un sequel? «Un film che racconta il silenzio, la rottura di un silenzio. Dovevo partire dall’assenza di parole, abbiamo lavorato molto in sottrazione. Il dialogo non ha necessariamente bisogno delle parole: sguardi, gesti, emozioni, non devono essere verbalizzate. Credo sia una prerogativa del sud comunicare senza parole».
Fabio Mollo è gentile. Gentile nei modi. Nello sguardo. Nella voce. Un ragazzo perbene. Un ragazzo bello, pulito. Un ragazzo pieno di domande. E forse con qualche risposta, anche se nega di averle. Anche se sostiene di volerle cercare insieme agli spettatori.
“Cosa è successo? Niente, gioia mia: il Sud è niente, e niente succede”. Così si sente rispondere la protagonista del film, quando cerca di scalfire il silenzio. Ma succede tutto. E Fabio ti racconta, con una profonda levità, che non è ossimoro ma essenza del Sud, esattamente quel tutto. Quello che è successo e quello che potrà succedere. Partendo proprio dalla diaspora.
«Da decenni incontro i miei compagni di generazione, assisto allo scontro tra chi è andato e chi è restato. Negli ultimi anni il legame con il territorio prescinde la fisicità legata al territorio stesso. In una generazione così globalizzata il legame prescinde l’aspetto fisico e geografico: tutti hanno fatto esperienze fuori, brevi o durature. Ormai facciamo parte di una generazione in continua osmosi, in continua comunicazione con i territori. Per la Calabria e i calabresi non è diverso. Il cambiamento non può prescindere dal dialogo con l’altrove e non può prescindere dal dialogo con il territorio. L’importante è che ci sia il dialogo. Che chi è andato e chi resta, chi è pronto ad andare via e chi è pronto a tornare dialoghino per uno sviluppo comune. Non c’è più bisogno di sentirsi traditori o traditi se ce ne andiamo o se restiamo. Il dialogo può continuare se ci sentiamo legati a prescindere dal posto dove stiamo. Questo è il tema del film. Un tema cui non dò la mia risposta. Lo abbiamo raccontato permettendo a chiunque di decidere cosa sia giusto fare».
Meridionalismo e vittimismo. «La voglia di riscatto e di ribellione attraversa la nostra generazione da nord a sud, dall’Europa all’Africa». La diaspora. Il salto mortale. «Riusciremo a restare in piedi? Non posso che augurarmelo. Ma già l’idea del salto è un’emozione molto bella, che non si vedeva da molto tempo, e che va premiata solo perché c’è il germoglio del cambiamento». Il silenzio. Il racconto che parte dalla Calabria per tornare alla Calabria. Una terra che senti madre, matrigna o amante? Ride, Fabio. Ride pulito. «Mi sento figlio. Un figlio che rispetta un genitore a tal punto da arrivare anche a rimproverarlo».
E questo non è niente. È tutto. O quantomeno il suo inizio.
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