Chiunque abbia a cuore la città di Napoli, il giuoco del calcio e si informi in maniera evoluta, con media tradizionali e non, ha potuto cogliere nei funerali di Ciro Esposito un altissimo valore simbolico. Simbolico in positivo, al di là dell’evento drammatico.
Per chi voleva testimoniare la propria partecipazione o anche semplicemente per chi aveva un cuore per capire, valeva la pena ieri esserci in prima persona o almeno seguire con attenzione quello che accadeva a Scampia, quel quartiere di Napoli che oramai per il mondo è Gomorra.
Poi però è calata la sera e nei telegiornali è andato in scena il solito stereotipo rassicurante e denigratorio del quale si nutre quella cultura del disprezzo e del dileggio, se non dell’odio, nei confronti della città di Napoli e di cui è contaminata mezza Italia.
Le cose colte -chi scrive ha cercato di esserci attraverso la meritoria diretta Sky, radio, le mille testimonianze in Rete- vanno in controtendenza rispetto alle narrazioni dominanti. C’era una periferia urbana degradata, fatta anche (soprattutto) di classe lavoratrice per bene, che parla in decente italiano piuttosto che lo svaccato dialetto che parlano immancabilmente i napoletani sapientemente scelti per parlare in tv.
Esprimevano dolore quei cittadini ma anche disagio, se non dissenso e restituivano complessità. C’era una periferia urbana, descritta sistematicamente dai media come la Gomorra del seriale (ben altro fu il libro), che incassa milioni scegliendo la più negativa delle immagini possibili di Napoli, e facendo un brand della deliberata scelta narrativa che i personaggi debbano essere tutti cattivi, offrendo allo spettatore non napoletano il senso di una rassicurante irrecuperabilità.
C’era una Scampia/Gomorra che finalmente può essere esplorata nella sua complessità di quartiere con oltre 40.000 abitanti, con disoccupazione, droga, camorra ma anche con un tessuto associativo, con ragazzi che vanno al Liceo e poi all’Università, con donne e uomini che si perdono ma anche che si ritrovano e persone che lavorano o che un lavoro lo cercano. Persone come Ciro Esposito, che lavava le macchine nella ditta di famiglia e costruiva lì il suo futuro, dopo aver girato per anni l’Italia montando grandi insegne per una ditta del nord, le parole del titolare della quale ne restituiscono i valori. C’era insomma una periferia urbana dove la battaglia non è perduta e dove perfino il non luogo di vialoni anonimi si risocializzava.
C’era l’esempio della famiglia di Ciro Esposito, che non era solo incarnata da sua madre Antonella, così lontana da tutti gli stereotipi della yiddish/neapolitan mame. C’era la testa pensante dello zio, che in questi due mesi ha contribuito a dare un senso politico e di classe al dramma, che si poteva leggere nelle bandiere della Fiom presenti, e che bene ha colto tra gli altri Massimiliano Gallo: «noi siamo qui anche per difendere il diritto ad avere un aspetto cattivo», avrebbe detto cogliendo il senso di una fisiognomica e perfino di un’estetica discriminatoria. A Gomorra Ciro non solo era un bravo ragazzo, ma non era neanche una mosca bianca.
Più dello zio impegnato nelle lotte da decenni però c’era lei, Antonella Leardi, che in queste settimane e ieri ha incarnato molto di più che la Mater dolorosa, il ruolo al quale sarebbe stata naturalmente relegata da stereotipi consolidati. Rappresentava coscienza di sé e del proprio luogo nel mondo. Lo ha fatto con quel messaggio non violento affatto sterile, che l’ha mostrata come quella leader che nessuna madre vuol diventare a quel prezzo. Siamo ben lontani da miti fondativi come quelli delle madri di Plaza de Mayo o quelle di Ciudad Juárez, ma l’occhio attento dovrebbe cogliere l’aspetto propositivo della figura di Antonella Leardi. Per arrivarci però si dovrà continuare a combattere una battaglia per la verità, la giustizia e la memoria. Di Ciro, di Scampia/Gomorra, di Napoli.
C’era un sindaco, detestato dalle classi medie progressiste, Luigi De Magistris, ma in grado di rappresentare quelle popolari tradite. Ha spezzato il corso dell’omertà, il tanfo della quale sale dal fascista Gastone De Sanctis ai suoi complici ancora ignoti, ai responsabili dell’ordine pubblico, fino al ministro degli interni, in un assassinio che sa di anni ’70 più che di violenza calcistica. No, non è l’omertà naturalmente attribuita alle genti meridionali in un radicato pregiudizio. Quella denunciata dal sindaco, in un ribaltamento di paradigmi accomodanti, è l’omertà del potere, di quelli che sanno che se simul stabunt non cadranno. De Magistris ha avuto il pregio di parlar chiaro, e ha denunciato il continuo attacco dei media monopolisti, le mistificazioni e le strumentalizzazioni contro Napoli che nella vicenda che ha ucciso Ciro Esposito, colpito alle spalle in un’imboscata, sono più evidenti che mai. Olfatto politico, certo. Ma olfatto che coglie il sentimento di un popolo che non ne può più di essere sistematicamente diffamato e che attacca apertamente l’operazione di sicariato mediatico del tre maggio per ribaltare i fatti e rappresentare la vittima come carnefice e criminalizzare una volta di più una città intera.
Poi c’erano altre cose, forse meno centrali: la cornice calcistica, l’amore per il Napoli, l’emozione della “bandiera tutt’azzurra” di Nino D’Angelo, altro personaggio con coscienza politica odiatissimo dalle borghesie locali e nazionali, la presenza composta delle poche tifoserie che non odiano la città di Napoli e non desiderano la morte di milioni di persone in un lavacro di fuoco. C’era l’assenza di troppi altri a farci ricordare che Napoli resta innanzitutto sola. Rifletti su queste cose e cerchi di tirare il filo di tante sensazioni e vorresti che qualcosa di quello che hai visto, o credi di aver visto, possa filtrare e possa scuotere qualche coscienza.
Poi arriva l’ora del TG della sera, non importa quale, e con la sera cadono le speranze. Fin dai titoli il fatto più rilevante è la presenza di Genny la carogna, l’italiano più odiato dopo Mario Balotelli, personaggio marginale al quale Repubblica dedica una squallida galleria di foto e sul quale i media scelgono con perversione di focalizzare l’attenzione. Nel ricostruire ancor meglio il loro romanzo criminale scovano addirittura un cugino detenuto del povero Ciro; è un dettaglio, ammesso che sia vero, utile solo a ripresentare uno stereotipo di napoletanità indissolubilmente sinonimo di malavita. Contano di più le maglie nere degli ultras che quelle qualsiasi delle migliaia di persone comuni. Perfino mamma Antonella perde nelle ricostruzioni dei servizi la sua funzione civile, il messaggio sulla non violenza torna stereotipato e viene reimmersa nel ruolo più rassicurante di Mater dolorosa senza scosse possibili.
Tutto il resto si perde, la carica di denuncia e soprattutto i fatti continuano ad essere travisati come è sempre stato in questi due mesi. Ciro continua anche oggi a essere descritto come rimasto ferito «negli scontri tra i tifosi» da «una pallottola (vagante?)» e non in un’imboscata nella quale è stato colpito alla schiena. Già; l’autopsia, i fatti, che qualcuno considera irrilevanti, di un ragazzo inerme colpito alla schiena da un fascista in piedi che ha sparato per uccidere. I fatti: spesso scomodi e ostinati nel distinguere la vittima dal carnefice. Ma i media monopolisti sono maestri nel glissare, tergiversare e riproporre stereotipi confermativi.
E così per decine di milioni di italiani Ciro Esposito può restare un ultras e un teppista se non un delinquente di Scampia/Gomorra/Cayenna. Poveretto, si sarà detto sorseggiando il brodo, nelle case di Cantù Cermenate: qualcosa doveva aver pur fatto se, già in coma, fu arrestato per rissa e… insomma il «napolecane» se l’era cercata. In questi mesi la famiglia ha subito anche l’insulto di dover mostrare la sua fedina penale assolutamente pulita: i giornali non ci volevano credere e continuavano a rimestare nel torbido. Che la famiglia di Ciro, ragazzo perbene, abbia per due mesi dovuto difendersi da cliché e diffamazioni, interroga tutti noi ma non i media monopolisti. Tra un paio di mesi ricomincerà il campionato e decine di Caressa torneranno a schierarsi a favore della «libertà d’espressione» del desiderare che milioni di persone, il pastore evangelico e mamma Antonella compresa, muoiano lavati col fuoco perché napoletani.