Francesco Merlo stigmatizza l’idea di collocare la Dea di Morgantina nel Museo di Aidone, dove molta meno gente riesce a vederla. Le cifre sono impietose, difatti: quando la statua era esposta al Getty Museum di Malibù i visitatori erano molto più numerosi.
Lo stesso discorso vale per L’auriga di Mozia e per il Satiro di Mazara del Vallo, limitandoci ad alcuni casi che riguardano la Sicilia. Tuttavia il numero di visitatori non può rappresentare l’unico parametro per giudicare la questione, così come il numero di lettori non dovrebbe esserlo per giudicare la qualità di un libro.
È innegabile che risulterebbe molto più comodo vedere la Dea di Morgantina in un museo meno periferico e più attrezzato, ma esiste un rischio correlato: quello di creare una novero ristretto di ipermercati dell’arte in cui la quantità dell’offerta soverchi qualsiasi fruizione ragionata. Capita al Louvre, agli Uffizi, e in una decina di altri musei sparsi per il mondo: nel pieno della visita si viene presi da una specie di sconforto.
Siamo interamente circondati da capolavori, e ci sentiamo in colpa perché non riusciamo ad apprezzarne neanche uno. Proprio come quando ci smarriamo col carrello fra i corridoi di un ipermercato: sugli scaffali c’è tanta di quella roba che non viene voglia di comprare più niente. Ogni Iper-Museo è una specie di campo di concentramento per opere d’arte in cui, diluito nel dramma collettivo, si perde la nozione del singolo dramma individuale.
Viceversa, andare a scoprire un’opera d’arte illudendosi di essersela conquistata con una deviazione dalle rotte più battute è un lusso magari illusorio ma inebriante, in tempi di turismo di massa.
Al sottoscritto è capitato di trascorrere un’ora in assoluta concentrazione di fronte ai Bronzi di Riace, nel derelitto museo di Reggio Calabria.
Vent’anni prima, a Roma e Firenze, bisognava fare ore e ore di coda sotto il sole per riuscire a vedere in mezzo alla folla quelle statue appena restaurate e oggetto di una psicosi collettiva. Si tratta di trovare, deve esistere, una via di mezzo fra l’isteria modaiola per ogni mostra alle Scuderie del Quirinale, e la solitudine del Satiro di Mazara.
La dislocazione periferica ragionata, in attesa di trovare la sintesi fra questi due opposti, è l’unica risorsa per il viaggiatore che non si rassegni al ruolo di turista, andando a cercare i capolavori lì dove sono, senza pretendere di averli in esposizione sotto casa. Con la consapevolezza di esserseli meritati.
Merlo ha ragione quando denota la desolazione che circonda il museo di Aidone, dove il visitatore non trova nessun conforto collaterale: né un caffè, né una postazione multimediale, né qualsiasi spunto per approfondire il viaggio ammortizzando l’investimento di tempo. La gestione dei beni culturali in Sicilia è perennemente all’anno zero, e la Dea di Morgantina è destinata a morire di solitudine, se non le si costruisce qualcosa attorno.
La collocazione di un capolavoro il più possibile vicino al contesto del suo ritrovamento dovrebbe essere il punto di partenza di un circolo virtuoso. Arrivare ad Aidone, invece, significa al momento solo vedere la Dea e visitare i ruderi di Morgantina. Non esistono strutture ricettive, né attrattive ulteriori. Il resto del territorio rimane anonimo anche agli occhi del viaggiatore meglio intenzionato.
Deportare la Dea di Morgantina a Palermo o addirittura a Roma rappresenterebbe una maniera per disperdere il suo potenziale: anche turistico, anche economico. Fermo restando che finora si tratta di un potenziale inespresso.
È fondamentale tenere presente un punto: il problema di ogni cattedrale nel deserto non è la cattedrale. Il problema è il deserto.
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