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Il futuro dell’Aquila, la città in attesa

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Anche quest’anno per il 6 aprile sentivo il bisogno di scrivere qualcosa. Ma ciò che mi veniva in mente era solo “cinque”, perché sono trascorsi cinque anni. Poi le parole e tutti i pensieri si fermavano e ne soffrivo. Non capivo. Forse le parole sono state scritte tutte.

Sono stata a Firenze per il fine settimana e mi sono tornate alla mente le parole del mio amico Massimo, di circa quattro anni fa, quando il nostro centro storico era tutto transennato e i cittadini tutti lontani: “Firenze devastata da un sisma di 6.3°.  S. Maria Novella, Palazzo Vecchio e Palazzo Pitti sventrati e abbandonati da dieci mesi. Il centro storico, distrutto, resterà chiuso sine die. Poco male: sarà sostituito da decine di “new towns” modernissime con le fogne che scaricano nell’Arno. Metà dei cittadini ancora senza casa, negli alberghi dell’Argentario e della Versilia. La TV esalta il miracolo fiorentino”.

Ho visto Santa Maria Novella, Palazzo Vecchio e Palazzo Pitti in tutto il loro splendore. Ho visto i cittadini popolare tutte le strade ed ho pensato che Firenze sarebbe stata ricostruita, in fretta, dai migliori architetti, con le più innovative tecniche antisismiche. Non ne ho sofferto, ho pensato che è così che dovrebbe essere.

D’improvviso, ripensando “all’iperbole” del mio amico, mi sono ritrovata a visitare la città come se fosse stata appena ricostruita dopo una catastrofe: ho passeggiato a lungo per strade e vicoli senza quel senso di estraneità che, da cinque anni, mi accompagna ovunque vada.

Mi sono ritrovata su Ponte Vecchio a rimirare le vetrine e la gente, ho scattato foto, tante, inutili, solo per il gusto di averle e continuavo a pensare come fosse stupendo vederlo ancora lì, “ricostruito” quel ponte. In realtà Ponte Vecchio lo vediamo ancora oggi così, perché i tedeschi, nel ’44, lo risparmiarono: abbatterono tutti i ponti sull’Arno, ma quello lo lasciarono intatto. Sembra fosse caro ad Hitler.

In due giorni e mezzo ho visitato tutto il visitabile, estasiata. Gli Uffizi, Palazzo Pitti, Santa Maria Novella, Santa Croce, la cupola del Vasari, sono persino salita sul campanile di Giotto. La Sinagoga, San Miniato, Santo Spirito, OrsanMichele, San Lorenzo. Il quartiere San Frediano, il borgo di Santa Croce. Musei e botteghe artigiane, Piazzale Michelangelo e non ricordo più cosa.

Molti quadri nella galleria degli Uffizi portavano la scritta “Restaurati da…”, e mi piacevano più del solito: tutto ciò che è restaurato e/o ricostruito mi fa sentire bene. Spicca  “L’adorazione del Magi” di Gentile da Fabriano, dove quei tocchi dorati riportati alla luce, riescono a catturare l’anima dei più distratti. Quando vivi in un paese ed in città ricche d’arte, quella ti entra nell’anima, anche se non arrivano turisti.

Nella Piazza di Santa Croce ho visto tantissima gente e mi è sembrato che fossero più felici del solito, come se quello spazio l’avessero appena riconquistato. E ne ho gioito: la piazza mi sembrava un regalo restituito alla umanità intera. In realtà, il 23 marzo 1944 una bomba esplose proprio a fianco della nota Basilica di Santa Croce, portando morte e distruzione. Come in altri pezzi di città: “il 25 settembre 1943 era un sabato, c’era il sole, non suonò l’allarme, ma i fiorentini videro gli aerei avvicinarsi. La lunga via Mannelli e le sue traverse vennero devastate, assieme ai viali e piazza della Libertà. Dall’inizio del 1944 la città fu devastata”.

Quando a Piazza del Duomo ho visto il Battistero circondato di impalcature, ho sussurrato: «Tranquillo, risorgerai anche tu».

Ho acceso in ogni chiesa una candela, così che anche in questa nuova Firenze “ricostruita” ci sia posto per le vittime del nostro terremoto. Non sono 309 le chiese di Firenze, ma per come sono intrise di bellezza, ne sono anche di più.

Insomma toltami di dosso quella estraneità, mista a invidia , tristezza e senso di inferiorità, mi sono sentita appagata. E mi sono sentita fiera. Di essere italiana.

Ora sono qui, L’Aquila. Nella città in attesa, un attesa lunga che ci sfianca; così tanto, che per sopravvivere dobbiamo volare con la fantasia e fingere. Persino che un’altra città bella come Firenze, possa essere la proiezione di quel che sarà il nostro futuro.

Ho pronto il mio cappotto pesante, quello che da cinque anni mi accompagna nella lunga notte fredda in attesa delle 3.32. Ci incontriamo di nuovo tutti in piazza.
Personalmente con la speranza di tornare ad essere fiera della mia città, a desiderare che lo siano tutti gli italiani. A volere che lo siano le 309 anime che con noi piangeranno quella notte.

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Published by
Giusi Pitari