Andarono a Napoli per conquistare la città, i fratelli Fasacco. Si erano messi in testa, ambedue, di comprarsi tutta la città.
Venivano da un paese dell’entroterra campano ed erano figli di un buon commerciante. Forti di questo successo, decisero di moltiplicare la valenza del padre.
Era il 1958, l’Italia era appena uscita dalla ricostruzione post-bellica. I due giovani presero in fitto un negozio di 500 metri quadrati e lo riempirono di tessuti e abiti confezionati. Dopo le prime vendite proficue, passarono all’apertura di un nuovo negozio.
“Tutti i soldi che guadagnamo devono solo servire ad aprire una nuova attività. Non dobbiamo preoccuparci se rischiamo di finire in malora. Dobbiamo procedere come un rullo compressore. Non bisogna guardare a quanto incassiamo ma solo ad incassare il più possibile per investire le somme.”
Erano determinati ed incoscienti, grandi lavoratori e di ottima reattività. Si misero a correre sulle praterie di una città che voleva crescere, e sui nuovi bisogni dei cittadini, fomentati dai beni di consumo dell’industrializzazione.
Tre negozi in un anno. Una buona nomea sul mercato. Quindi passarono al settore alimentare, poi a quello dei detersivi.
“Non so più quanto abbiamo e cosa abbiamo. I debiti sono alti, ma ci sono dodici negozi che incassano un fiume di denaro. Riusciamo a pagare ogni rata quasi puntualmente. Io non vedo grossi problemi. Possiamo iniziare a buttarci nel ramo delle costruzioni.”
E così fecero. Individuarono un paio di terreni nel quartiere Vomero e costruirono due palazzi di cinque piani.
Il denaro continuava a girare in maniera vorticosa. Usciva dai negozi di abbigliamento e finiva in quello degli alimentari, si congiungeva con quello dei detersivi e finiva nel mattone.
In un anno riuscirono a vendere i venti appartamenti ed utilizzarono i soldi per costruire un palazzo di dieci piani verso il centro.
Il padre veniva a trovare i figli una volta al mese.
“Perché non fate due conti? Fermatevi un attimo e ragionate.”
“No papà, qui se ci fermiamo si rompe l’incantesimo. Siamo partiti così, all’arrembaggio e così dobbiamo continuare. A noi non interesse quanto guadagnamo, ma crescere, crescere, crescere.”
“Mha! Io non ci capisco niente. Sono uno che si è fatto i conti spaccando la lira ed ho fatto due figli che non sanno quello che hanno! Vi ho dato molti soldi per partire…. ora non potete andare avanti così!”
Venne fuori la possibilità di costruire una strada e s’inserirono nel ramo dell’asfalto. Lavoraravano ormai in cinque: i due fratelli e tre ragionieri factotum e lautamente stipendiati. Giovani svegli, intercettati durante la loro cavalcata.
Nel 1962, con rari giorni di ferie, i fratelli Fasacco avevano quasi cento dipendenti. Le banche non faticavano ad erogare mutui.
Una sera uno di loro disse: “Io mi fermo un po’ e mi sposo. Voglio un figlio.”
“Non erano questi i patti. Avevamo detto a 35-38 anni. Manca molto.”
“Ma io mi sto stufando, sento che le energie di un tempo vengono meno.”
“Io no. Quello che a te manca lo aggiungo io”.
“Ma non ti sei mai chiesto in questi anni cosa stiamo facendo, dove stiamo andando?”
“No. Se mi faccio una sola domanda, poi mi fermo.”
“Allora credo che c’è qualcosa che non va. C’è un vuoto dentro di noi che abbiamo anestetizzato con una cavalcata nel campo del fare. Ora credo che sia il momento di guardare quel vuoto”.
“E tu vorresti riempirlo con un figlio?’
“Si.”
“Ed i negozi? I dipendenti? Le loro vite?”
Rimase in silenzio. “Sediamoci a tavolino e facciamo due conti.”
“No. Se li faccio mi ritiro da tutto.”
“Tu sei: o tutto o niente. Così non va bene.”
“Se nostro padre fosse stato un uomo come gli altri, forse tutto questo non l’avremmo fatto.”
“Forse hai ragione”.
“Tu hai paura di fare i conti, perché tra il dare ed avere magari viene fuori che è più ricco papà.”
“Forse hai ragione”
“Io con il figlio voglio finirla con questa folle sfida. Tu non hai un progetto.”
Continuò da solo. Rilevò tutto. Continuò a crescere. Fece il figlio e si sposò solo dopo la morte del padre.
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