Mio nonno nacque il 12 febbraio del 1899, sugli Appennini del Sud.
Il padre, valido commerciante, lo lasciò a soli tredici anni, insieme ad altri sette fratelli. Ma questi avevano seguito le fortunate tracce per le Americhe del primogenito e mio nonno, in quella tenera età si trovò alla guida di due negozi, con annessa sartoria.
Dopo la sconfitta di Caporetto, nella prima grande guerra, vennero chiamati a combattere i ragazzi sul far dei diciott’anni. Mio nonno si trovò tra questi.
Così, da giovanetto, passa dalla trincea del lavoro a quella terribile del Piave, del Grappa e del Montello. Con un fucilone in mano, che si faceva fatica a trascinarlo.
Lo piazzarono a tenere le cartucce che partivano dai mitragliatori e a veder morire migliaia di uomini.
Quando tornò riprese le redini del negozio ed a vent’anni era marito, a ventuno padre.
Voleva andare anche lui negli Stati Uniti, per raggiungere un fratello che aveva una catena di pelliccerie a Chicago. Forse voleva fare qualcosa di grande. Aveva anche comprato il biglietto per il vaporetto. Ma Mussolini bloccò gli espatri. Così pensò d’ingrandire ciò che aveva. E dunque: sotto a lavorare!
Fu uno dei primi ad avere la corrente elettrica in casa, quando arrivò al paese. Mi raccontava, a tal proposito, che sua madre era stupefatta della “luce senza candele”. Non si capacitava. E quando un giorno mio nonno prese la scossa e cadde per terrà, ella urlava: questa è roba del diavolo!
Mio nonno fece parte di quella generazione neo-borghese che voleva diminuire il gap con l’aristocrazia, creando una catena di congiunzione, e una sorta di mediazione, con le masse contadine. E la congiunzione e l’accreditamento, che erano un viatico per la partecipazione alla vita politica, avveniva sopratutto imitandone i comportamenti. Infatti mio nonno fece affrescare tutta la casa da un affermato pittore, comprò l’auto nel 1935 dotandosi di autista, fece studiare mio zio dotandolo dei migliori precettori e iscrivendolo alle migliori scuole, fino al conseguimento della laurea in medicina. Non per caso, mio zio divenne sindaco del paese negli anni cinquanta, come a coronorare quell’inarrestabile avanzata di una classe sociale che divenne nerbo della nazione.
Era il Sud che rompeva l’egemonia asfissiante della piccola aristocrazia, portando al potere una classe intermedia.
Se poi la politica sia rimasta un agone sempre scadente e putrescente, purtroppo appartiene a dinamiche culturali molto ampie e bisogna fare i conti con secoli di storia.
Un giorno sfogliando un libro sulla vita di un antifascista illustre, confinato per un periodo al mio paese, vidi una foto scattata con una serie di amici che lo avevano aiutato economicamente. Riconobbi mio nonno. Erano le due della notte, mi commossi e mi misi a piangere. Pensai che in vita non ero riuscito a comprendere il suo spessore umano.
Il giorno dopo telefonai a mia zia, e domandai di quel tizio. Feci nome e cognome e lei mi disse: ma lui era sempre a casa nostra! Faceva lezioni a me e tuo padre.
“Ma nonno non rischiava qualcosa frequentando un uomo al confino?” le chiesi.
“No. Il maresciallo era contento che qualcuno gli desse una mano per vivere.”
Quell’uomo, grande avvocato, due anni dopo, venne ucciso barbaramente dai fascisti a mitragliate, insieme al fratello. Mio nonno venne richiamato a quarantacinque anni al servizio militare. In luogo del suo negozio, doveva percorrere dieci chilometri al giorno a cercare eventuali ordigni sul tracciato di una ferrovia. Un’Italia in ginocchio.
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