Il Governo delle larghe intese ci ha abituato ai decreti omnibus, veri e propri zibaldoni dai contenuti più diversi. Lo ha fatto anche con il femminicidio che sta dentro un decreto “sicurezza” che contiene incomprensibilmente anche norme sulle proteste contro la Tav, sugli stadi, l’organizzazione delle Province, l’inasprimento delle pene per furti di rame. Un quadro ancora più indigeribile del solito.
E questo perché quando si vuole legiferare sul corpo delle donne il simbolico gioca un ruolo primario: pensare di utilizzarlo, come si fa in questo decreto “sicurezza”, come specchietto per le allodole per far passare tutto il resto è molto grave. Per una ragione di forma e di sostanza: perché ci restituisce in maniera plastica l’idea di come la politica istituzionale in questi anni sia rimasta cieca e sorda davanti alla denuncia pubblica delle donne.
Colpevolmente. Perché, come hanno giustamente ribadito tutti i soggetti ascoltati nelle audizioni delle commissioni parlamentari, «nessuno poteva non sapere»: i fatti di questi anni dimostrano in maniera inequivocabile che la violenza contro le donne non si contrasta con un approccio securitario, ma attraverso la prevenzione, la formazione e il rafforzamento delle strutture già esistenti. E invece in questo decreto non c’è la scuola, non ci sono i servizi sociali, non c’è la rete dei centri antiviolenza (che è in grave difficoltà, come sto verificando nel tour #restiamovive) e e dei centri per gli uomini maltrattanti (com’è stato sperimentato a Torino e in altre città italiane). Piuttosto è un insieme di maggiori poteri alla polizia giudiziaria e di aggravanti processuali.
Su un punto in particolare, e mi riferisco alla “irrevocabilità della querela” spacciata per una rivoluzione positiva, non si tiene in nessun conto della volontà della donna che, invece, viene lasciata sola ad affrontare quello che è molto simile a un “inferno”. Perché gli uomini denunciati dalle donne sono compagni, mariti, padri. E quindi, se non si interviene sul sostegno economico, sull’assistenza e le si vincola, si crea un effetto contrario: farle decidere di non denunciare per la paura della finitezza di questo gesto. L’impossibilità di poter cambiare idea mette ancora più angoscia: la paura di “rovinare” le vite dei loro uomini.
Tutto ciò alla luce ha ancora più valore se si pensa che il 75% dei casi di femminicidio era stato preceduto da segnalazioni alle istituzioni. Cosa ha fatto lo Stato per queste donne? E come sarà accanto a loro se dovesse passare questo decreto “sicurezza”?
Bisogna allora intervenire a sostegno di chi deve operare ed opera insieme alle donne vittime di violenza per capovolgere questo sguardo. Sapendo che non è facile perché interviene dentro una relazione sentimentale. Anche per questo motivo sarebbe stato importante introdurre, già in questo decreto, l’educazione sentimentale nelle scuole (proposta di legge che ho già depositato), il potenziamento dei centri antiviolenza, l’istituzione dei centri per uomini maltrattanti, il rafforzamento delle politiche sociali territoriali e la formazione continua per magistrati e forze dell’ordine. Tutti strumenti che intervengono da una parte sulla prevenzione del fenomeno e dall’altra sulla protezione della vittima nel suo percorso di liberazione dalla violenza.
È necessario allora – come chiedono anche tutte le donne impegnate contro la violenza – cambiare radicalmente questo decreto. Non potremo votare un provvedimento in cui violenza sessuale, stalking, violenza di genere sono usati come se fossero sinonimi. Senza neppure distinguere livelli e i piani del linguaggio. Oppure continueremo, come sempre, a non ascoltarci e a parlare con lingue incomprensibili e avremo soltanto l’ennesima – e inutile per le donne – legge spot per questo Governo.
– da l’Unità del 19 settembre 2013 –