Ha preso appunti durante tutta l’udienza e ascoltato grazie all’aiuto dell’interprete l’interrogatorio di un pentito di mafia. Per Satoru Uchida, 38 anni, giudice della Corte Suprema di Tokyo, è il primo processo di criminalità organizzata. In servizio all’ufficio studi, da mesi è in Italia per capire come funziona il nostro sistema giudiziario.
Dopo le tappe di Roma e Firenze ieri ha partecipato, a Palermo, al dibattimento sulla trattativa Stato-mafia. Un mondo completamente nuovo per Uchida che prima di arrivare alla Suprema Corte ha fatto il giudice penale a Fukushima. “Non avevo mai sentito parlare di questa vicenda – ha spiegato ai cronisti – Ho seguito il controesame del collaboratore di giustizia, ma ho compreso ben poco“.
Dalle battute scambiate a margine dell’udienza è facile capire che il sistema processuale giapponese è molto diverso da quello italiano. Basta pensare alla durata media dei processi penali. “In primo grado – spiega – un dibattimento dura circa tre mesi: e complessivamente fino alla sentenza definitiva trascorrono al massimo 6 mesi-un anno“. “In Giappone – dice – ci sono circa 5mila giudici, ma solo 20mila avvocati e il contenzioso è molto ridotto“. Quando gli si chiede se la Yakuza, la forte mafia giapponese, abbia infiltrazioni nella politica e nelle istituzioni Uchida risponde sorridendo: “non ci risulta“. Come non è mai accaduto che la criminalità abbia trattato con lo Stato. “Possono fare accordi tra loro – spiega – tra fazioni criminali, ma non con le istituzioni“. In Giappone non esiste neppure un sistema carcerario differenziato, come il 41 bis italiano, per i boss. Nè la videoconferenza nata in Italia per evitare il cosiddetto turismo giudiziario dei capimafia. “Non sarebbe giusto – dice – per gli imputati. Ci stiamo pensando per i testimoni per risparmiare tempo e denaro“.
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