Domani si nasce.
Una tragedia un orrore una vergogna.
Gli occhi si fanno bassi e viene voglia solo di piangere.
Di non parlare.
Di morire un po’. In silenzio.
Ogni singola faccia, vista o immaginata tira sulla pancia, reclama,
urla.
Impensabile quel tempo, tempo di attesa quel tempo sospeso.
Il bisogno di scappare. Il sogno accarezzato.
L’incontro con lo scafista, o chi per lui, il sogno che forse può
diventare realtà, forse l’altra parte del mondo, così vicina, si può
raggiungere davvero.
Perché l’altra parte del mondo in realtà è appiccicata.
Basta solo trovare i soldi. Tutti. Tutti quelli richiesti.
Tutti i soldi che si hanno e tutti quelli che non si hanno.
Ma per vivere, per poter vivere ancora o per la prima volta, si troveranno.
E poi la data.
Domani.
Si parte.
Domani si parte, domani si nasce.
E chissà se c’è spazio per pensare mentre si sta per andare, si
salutano mogli, madri padri nonni figli, amici e parenti, si
incontrano tutti o forse no, si comincia a essere già clandestini
nel sogno, ci si appiccica già addosso l’odore del reato e allora
meglio non dire, non far sapere.
Solo un bacio a chi amiamo di più e lo sguardo pieno di chi stiamo
lasciando e di quella terra da fuggire.
Stipati. Ammucchiati. Ammassati.
Così si sta sulla barca della salvezza.
Non si va incontro al nuovo mondo sorridendo ma col buio della notte
fuori e dentro di sè, stretti in uno spazio disumano ancorati solo
al proprio sogno, sopravvissuti a un mare che si ribella e urla e
vomita senza sosta, e prende a cinghiate e rifiuta e incendia
barche, e speranze e vite. Punisce.
Punisce perchè colpevoli.
Colpevoli di aver osato il sogno.
Così si sta sulla barca della salvezza così sta chi ce l’ha fatta,
chi è sopravvissuto. Chi ha toccato terra.
Stipato. Ammucchiato. Ammassato. Stipato in centri sovraffollati.
Urla il mare nostro urla disperato e urlate anche voi.
Urlate più forte che potete che domani, qui, si muore.
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