Giorgio Locatelli è di sicuro uno degli chef più bravi al mondo, ma a raccontare storie di cibo e territorio siciliano questa volta ha preso una leggera imbarcata. Ecco cosa è successo. Il prestigioso quotidiano inglese “The Guardian” ha affidato allo chef stellato Locatelli la stesura di un brano all’interno di un corposo reportage dedicato ai luoghi del mondo dove mangiare bene. Allo chef trapiantato con successo in quel di Londra è stato assegnato il racconto della Sicilia e delle sue bontà. Grazie mille per il tentativo, ma quel racconto magari andava fatto da chi di Sicilia ed eccellenze del territorio ha le competenze per parlare e scrivere.
Nonostante il lodevole sforzo di “promotion”, il risultato – ci perdoni Locatelli – è un po’ grossier e anche un po’ banalotto. Il primo scivolone è già nel cappello introduttivo. Ecco l’esordio di Locatelli: “La Sicilia è un gioiello, di enorme cultura: greci, romani, arabi, normanni, spagnoli, britannici e italiani hanno lasciato qualcosa”. Non c’è nulla che stona? Secondo noi sì. Quel “gli italiani hanno lasciato qualcosa” è un errore da matita rossa. Come fanno gli italiani a lasciar qualcosa alla Sicilia, se storicamente, culturalmente, quest’isola al centro del Mediterraneo è parte necessaria ed inalienabile dell’Italia. E poi, indossando per un attimo gli scomodi panni del rivendicazionismo isolano, la storia recente dice tutt’altro. Nel rapporto tra Italia e Sicilia, se qualcuno ha dato, quel qualcuno è la Sicilia. Basti ricordare il recente riconoscimento dello svantaggio causato dall’insularità, tanto per capirci.
Mettiamo da parte la politica e l’economia, stiamo parlando di cibo e cultura. Mettiamo da parte il bilancino della storia e della politica e continuiamo l’analisi di come Locatelli vede la Sicilia e il suo food. Il primo suggerimento dello chef è “appena arrivati mangiate un cannolo”. Non è esattamente una novità. Ma il meglio arriva con la descrizione della tipica pizza siciliana, lo sfincione. Di quella pietanza Locatelli proprio non riesce a tirare fuori una compitazione corretta. Lo appella ripetutamente “sfincuini”. Qualcuno potrebbe obiettare che si tratta del tentativo di replicare nero su bianco la voce dialettale con cui si definisce quella pizza siciliana: “u’ sfiunciuni”. Tentativo comunque maldestro.
Locatelli completa la sua vision della cucina siciliana arrovellandosi tra arancine, panini con la milza e stereotipi vecchi e consumati. Insomma, più che essere la fiera delle bontà, quella raccontata da Locatelli sulla Sicilia è la sagra della banalità. In buona fede si intenda. Magari avrebbe reso un servizio migliore con una approfondita panoramica sull’enorme patrimonio agroalimentare della Sicilia, dai grani antichi alle rarissime spezie come il sommacco.
Perchè accadono queste cose? The Guardian è il quotidiano dell’avanguardia progressista british. Un po’ radical chic, da sempre il quotidiano si intesta la battaglia su cosa sia politically correct e cosa no. Nulla contro Locatelli sia chiaro, ma se parliamo di competenze assolute, il pur eccezionale chef non è la firma più competente in materia, parlando di Sicilia e del suo food. Però è firma più figa, più cool e, cosa per nulla trascurabile, la più acchiappa click. Si sorvola con leggerezza – cosa che ormai accade sempre più spesso- sulla settima proposizione del Trattato di Wittgentstein. Insomma se lo sfincione non lo conosci, non parlarne, non scriverne, ma soprattutto non storpiarne il suo sacro nome.