Tra il 1931 e 1932, solo 18 docenti universitari non giurarono per il regime fascista. Gli altri si adeguarono. Per il bene della famiglia, naturalmente, ma anche per un certo conformismo con il potere culturale dominante che ha sempre animato certe Accademie. L’adeguarsi agevola carriere, facilita concorsi, attrae simpatie dei docenti che contano.
Lo stesso Benedetto Croce, che mai aspirò a salire in cattedra pur avendone titoli e qualità, non nutriva eccessiva simpatia per il sistema universitario e alcuni suoi docenti. Ne ha lasciato tracce emblematiche nelle sue “Pagine sparse”. Eccone un esempio: “I professori sogliono interpretare l’animo umano con una certa psicologia accademica. Vedete i commenti alla Divina commedia, nei quali i signori professori vengono volentieri attribuendo al fiero Dante insinuazioni e rigiri maligni, ed elevano a criterio d’interpretazione i modi di guerra che essi adoperano nelle loro gare e litigi e bizze in seno alla facoltà, alle commissioni di concorso o al Consiglio superiore”. Poichè sono un semplice giornalista, mi tocca citare: Pagine sparse, volume 1, Ricciardi, Napoli 1941, pagina 393.
Mi sembra, questo, un richiamo illuminante sulla nuova polemica, sollevata da un gruppo di docenti dell’Università di Bari e ripresa da alcune associazioni che raggruppano professori integrati o “free lance” di storia. Polemica contro la provocatoria iniziativa del Movimento 5 Stelle di promuovere, nelle regioni del Sud, ordini del giorno a favore di una “giornata della memoria” sugli episodi grigi dell’unificazione nel Mezzogiorno. Polemica che, riecheggiando il famoso manifesto che fu promosso a Torino dallo scomparso professore Alessandro Galante Garrone (ricordate il titolo? “Giù le mani dal Risorgimento”) alimenta stravisamenti, repliche di tono basso, gelosie accademiche e corporative.
Senza distinguo tra nomi e ricerche, gli accademici bollano di “neoborbonismo” (fenomeno che, quello sì con serietà, è stato studiato da alcune università aperte alla ricerca sociale come l’Università della Calabria con la sua illuminata docente Marta Petrusewicz) tutti i lavori che, negli ultimi anni, sulla scia di ignorate e isolate opere dell’immediato dopoguerra, hanno cercato di fornire chiavi di lettura diverse sull’annessione del Mezzogiorno al resto d’Italia attraverso quella che Gramsci definiva “la falsa rivoluzione del Risorgimento”.
Ne sono derivate aspre polemiche in Rete, con i social invasi da batti e ribatti che, come accade sempre nella palestra di Internet, spesso hanno scantonato con cadute di stile. La questione che a me è invece apparsa più rilevante è: l’Accademia è gelosa delle sue prerogative? Bolla i lavori e le ricerche sulla base di patenti universitarie affibbiate (per concorsi, su cui a volte è meglio sorvolare) all’interno della corporazione? E qui ricito Croce: “A proposito dell’uso non infrequente da me fatto della parola professore ad esprimere un certo modo di inferiorità in cose di filosofia, mi si risponde che anche Platone, Aristotele, Vico e Kant furono professori. La risposta, che vorrebbe essere arguta, è essa stessa professorale, cioè poco fine, perchè io non parlo dell’onesto guadagnarsi il pane con l’insegnamento, ma di un certo abito mentale che si forma spesso in quella condizione” (sempre Pagine sparse, ma al volume 3, pagina 163).
Invasioni di campo da non professori. C’è da chiedersi: Croce è riconosciuto storico e filosofo, ma non era professore universitario. E Giovanni Spadolini, che fu anche direttore del Corriere della sera, era storico o giornalista? E oggi Paolo Mieli, che conduce quasi tutte le trasmissioni su argomenti storici della Rai, è rimasto giornalista o sul campo si è confezionato addosso anche l’abito da storico? Analogo discorso andrebbe esteso, credo, su qualche ricerca condotta, con serietà e onestà intellettuale, da giornalisti che, sul campo e con pubblicazioni che, se fossero in Accademia, sarebbero valutate come titoli, si sono conquistati credibilità e definizione di storico, seppure in ambito divulgativo. Citerò fino alla noia l’esempio di Franco Molfese, vice direttore della biblioteca del Parlamento che, con la sua Storia del brigantaggio dopo l’unità pubblicata con Feltrinelli nel 1964, diede lezioni a tutti e arò il campo per centinaia di ricerche accademiche sull’argomento.
Non vorrei, avendo troppa considerazione dell’istituzione universitaria, che da studente ho frequentato e frequento ancora con inviti a conferenze e interventi, che la questione di fondo sia la crisi del ruolo e dell’autorevolezza del docente accademico. Specie in materia di storia contemporanea. Nell’epoca dell’informazione, con il moltiplicarsi degli strumenti di comunicazione, i docenti si vedono scavalcati in visibilità e notorietà da lavori di ricercatori non accademici, che pubblicano opere divulgative, spesso (ma non sempre, è vero) con rigore metodologico. La ricerca di collaborazioni sui giornali, o di collaborazioni in trasmissioni televisive (vedi Rai storia e annota i nomi dei docenti, sempre presenti, a spiegare gli avvenimenti storici proprio come farebbe un giornalista) sembrerebbe confermare questo sospetto.
Gelosie corporative, difese dell’autorevolezza dei loro studi, che spesso sono conociuti solo dagli accademici e hanno circolazione autoreferenziale interna così come le riviste che “fanno titolo”, alimentano sospetti sulle recenti polemiche. Si dice: “E’ l’uso politico-strumentale di alcune discutibili interpretazioni storiche, che copre responsabilità nel presente al centro delle critiche alla proposta della giornata della memoria”. Accolgo per buona l’obiezione, ma la storia ha sempre fornito strumenti di interpretazioni interessate. Nell’Italia liberale sul Risorgimento, nel Ventennio fascista sull’epoca romana, nell’immediato secondo dopoguerra sulla Resistenza. Vizio italico, dove la storia non è quasi mai materia di pacato confronto, ma di scontro aspro. Non si fanno seriamente i conti con il passato, per interessi nel presente.
Ho sorriso, leggendo gli articoli di qualche giorno fa sulla scomparsa dello storico inglese Denis Mack Smith, autore di tanti studi e libri che hanno venduto decine di migliaia di copie, come nessun docente di storia italiano nello stesso periodo riusciva a fare. Il rispettabile Rosario Romeo (i cui studi sulla figura di Cavour restano un caposaldo per chiunque voglia approfondire la figura dello statista piemontese), morso da un po’ di invidia tutta cattedratica, così bollava i lavori di Mack Smith: “Ogni riferimento a fatti accaduti è puramente casuale”. C’è forse, in questa frase, la sintesi della spocchia e della chiusura al confronto che sembra alimentare anche le polemiche delle ultime ore. L’ho detta.
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