Dall’incipit si capisce che l’ambizione dello scrittore è alta, pari al successo internazionale del regista. Del resto è noto che la considerazione di sé è una delle molle che spinge tutto e come sempre accade nei libri che vale la pensa conservare nella propria libreria, nell’incipit c’è già tutta la storia.
«Come il giovane Holden, non mi va di dilungarmi in tutte quelle stronzate alla David Copperfield, anche se in questo caso i miei genitori magari possono essere un soggetto più interessante del sottoscritto…».
L’essenza del libro è tutta qui. Avere come metro di paragone uno dei romanzi più fortunati dell’intera produzione mondiale, Il Giovane Holden di J. D. Salinger, e, nello stesso tempo, proporre sé stesso come un uomo qualunque, perfino banale.
Woody Allen scrive la sua autobiografia su un doppio registro, la banalità evidente di certe affermazioni con luoghi comuni proposti volutamente in eccesso e l’intelligente ironia dell’umorista conosciuto e apprezzato fin da quando era poco più che maggiorenne. Per molti un genio assoluto.
In genere quando leggo un libro ho sempre con me una matita per sottolineare e costruire un mio, personale, indice. Riporto il numero della pagina e il titolo che ho dato alla sottolineatura e vado avanti. Questa volta giunto a pagina 25 ero sul punto di mollare perché il mio indice aveva già superato una pagina, ma ho resistito. Ho sottolineato di meno e sono andato avanti. Ho anche riso tanto, come si ride durante i film di Allen, interiormente. O almeno io li ho sempre vissuti così.
«Il più europeo» dei registi americani attraversa la sua vita, fin da prima della sua nascita per arrivare all’oggi, ai suoi ottantaquattro anni.
«Ma adesso sono pronto per nascere. Finalmente faccio il mio ingresso nel mondo. Un mondo in cui non mi sarei mai sentito a mio agio, che non avrei mai capito, che non avrei mai accettato o perdonato. Allan Stewart Konisberg, nato il 1° dicembre 1935. A dire il vero nacqui il 30 novembre, quando era quasi mezzanotte, e i miei genitori spostarono la data, in modo che potessi cominciare dal primo giorno del mese».
Una vita messa su carta che è fatta di cinema e di tutto ciò che ruota attorno ad esso e ovviamente di Mia Farrow e del loro tormentato rapporto. Allen dedica quasi metà del libro a ciò che è successo tra loro due e alle inevitabili conseguenze che tutto questo ha avuto sulle loro vite. Vite devastate dopo la scoperta da parte della Farrow, raccontata nel libro in modo minuzioso, della relazione tra Soon-Yi, sua figlia adottiva, e lo stesso Allen. In seguito a questa scoperta Mia Farrow accuserà Woody Allen di aver approfittato di sua figlia, Dylan, che all’epoca dei fatti aveva sette anni.
Allen non tralascia nulla di questa vicenda, ricostruisce la storia di questa relazione e riporta la sua versione dei fatti supportata dalle conclusioni a cui giungono lo Yale New Haven Hospital e i servizi sociali dello Stato di New York riguardo proprio all’accusa di violenza sessuale perpetrata ai danni di Dylan.
«Non è stata riscontrata alcuna prova credibile che il minore citato in questa denuncia sia stata vittima di abusi o maltrattamenti. Pertanto la denuncia è da considerarsi infondata».
E subito dopo questa citazione, l’unico passaggio del libro in cui si cui si fa fatica a riconoscerlo. «Ci sono ancora dei mentecatti che pensano che io abbia sposato mia figlia, che Mia fosse mia moglie, che io avessi adottato Soon-Yi e che Obama non fosse americano…». L’unico passaggio di tutto il libro in cui i sentimenti personali e la vicenda umana prende il sopravvento su tutto il resto.
Ma dura poco, lo spazio di queste poche righe e poi, pur non abbandonando mai quella che lui chiama «una caccia alle streghe», la narrazione torna ad essere calvinianamente leggera fino alla fine, fino a pagina 398.
Un inno al cinema e ai suoi protagonisti. A chi ha fatto la storia del cinema, registi, attori, attrici, direttori della fotografia, sceneggiatori e sceneggiatrici, personale addetto al catering e, anche se non era ovvio, a chi il cinema lo finanzia. Un inno al jazz, alla pioggia e, soprattutto alla sua città di nascita, New York e a Manhattan in particolare.
«Non mi piace che si diano premi in campo artistico. Film, libri e così via non vengono creati per fare a gara gli uni con gli altri; nascono per soddisfare un impulso creativo e, si spera, per intrattenere. Non sono interessato a sentirmi dire da qualcuno quale sia il miglior film, libro o musicista dell’anno…».
Non gli piacciono i premi e spiega perché non li ha mai ritirati, tranne che in un’occasione, in Spagna. Ne ha vinti molti, quattro premi Oscar (ventiquattro le nomination), tre alla sceneggiatura e uno alla regia, tre Golden Globe con quattordici nomination, tre volte il premio BAFTA con ventitré nomination. È stato premiato a Venezia, Cannes e Berlino. Ha vinto cinque volte il David di Donatello con tredici nomination. Ha vinto il premio César due volte con dieci nomination e il premio Goya con altre due nomination.
Ha scritto «centosei ruoli femminili da protagonista che sono valsi sessantadue nomination alle loro interpreti» e le attrici e gli attori che hanno recitato nei suoi film hanno vinto, spesso, la statuetta più ambita in ambito cinematografico: l’Oscar per la migliore interpretazione.
Una dedizione completa e totale per il suo lavoro, ottantaquattro anni spesi per il cinema e la scrittura. Capisci, leggendo A Proposito di niente di Woody Allen, che se vuoi avere successo con il tuo lavoro, devi pensare solo a quello. Da mattina a sera e continuare anche durante le ore di sonno.
Il finale potrebbe essere l’inizio di un nuovo film, «Come riassumere la mia vita? Tanti stupidi errori compensati dalla fortuna…». E mi fermo qui per non togliervi il gusto di leggere l’ultima pagina.
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