Si chiamava Marco ed era una persona down.
Una di quelle simpatiche persone cui tanta gente, per paura, per egoismo o per malcelata pietà, vieta sul sorgere l’ingresso nella vita. I genitori lo accolsero e ne fecero il centro della loro esistenza. Iniziarono a vivere girando intorno a lui, alle sue esigenze, ai suoi limiti.
Impararono a interpretarne le sofferenze, i capricci, i gesti. Marco, infatti, non ha mai parlato. Suo padre, ragioniere, divideva la sua giornata tra la casa e il lavoro in una piccola azienda. Un giorno ebbe un malore sull’autobus. Morì poco dopo in ospedale. Marco rimase solo con la mamma, una valente pianista. Insieme passavano lunghe ore seduti al pianoforte. Lei faceva scivolare con perizia le dita sulla tastiera e lui, felice, con le manine goffe, tentava di imitarne i gesti.
Un cruccio tormentava la malinconica signora: « Che fine farà questo figlio alla mia morte?». Quando quel giorno giunse, per Marco si aprirono le porte di un istituto. Nella casa di cura, però, il ragazzo si incupiva sempre di più. Rifiutava di mangiare e non riusciva a relazionarsi con nessuno. In breve tempo andò perdendo quel minimo di indipendenza che aveva raggiunto grazie all’amore perseverante dei genitori. Don Giorgio era un giovane prete. Discreto e disponibile, molto attento alle creature più fragili e indifese.
Un giorno incontrò Marco e intuì il motivo del suo malessere. Il ragazzo tentava, a modo suo, di comunicare che la nuova sistemazione non gli piaceva.
Don Giorgio andò a trovarlo spesso, gli divenne amico, guadagnò la sua fiducia. Intanto si chiedeva che cosa si potesse fare per Marco. Decise. Chiese e ottenne dalle autorità competenti di poterlo avere in affido e creò attorno a lui un circolo di volontari che se ne presero cura.
Prese in affitto un piccolo appartamento e riuscì a ricostruire la sua vecchia stanza, con i suoi mobili, gli oggetti cui era legato, i suoi giocattoli. Ma fu il pianoforte della mamma, ritrovato per miracolo su una vecchia soffitta, l’oggetto che ridiede al giovane la voglia di continuare a vivere. Era stupendo vedere don Giorgio, seduto alla tastiera, suonare, mentre al suo fianco, sereno, Marco strimpellava, come faceva un tempo. Marco ritrovò la sua casa, il suo ambiente, le sue cose.
Ma, soprattutto, ritrovò le coccole, le attenzioni, le carezze di sempre che tanto gli mancavano. Ogni tanto don Giorgio gli appoggiava il capo sulla spalla per permettergli di abbracciarlo. Parlavano un linguaggio tutto loro.
L’antico linguaggio che solo l’amore gratuito e responsabile sa parlare. Un giorno, seduti al tavolo di un bar, sorseggiavamo un caffè insieme. Mi accorsi con immenso piacere che la gente intorno – soprattutto giovani – ci guardavano con tenerezza e simpatia. Ad un tratto Don Giorgio mi sussurrò: «Sai? Marco è stato capace di trasformare la mia vita e quella degli amici volontari che lo accudiscono…». È proprio vero. Quando non si ha paura di prendere sul serio Cristo e il Suo Vangelo esigente e liberante; quando ci si fida di Lui e delle sue promesse; quando si vive per donare “ consolazione ai sofferenti” e ci si impegna per “ costruire insieme un futuro di speranza, più fraterno e solidale” in cambio, dall’Autore della vita, sempre si riceve “cento volte tanto”. Marco è volato tra gli angeli qualche anno fa. A don Giorgio, il parroco della parrocchia dove sono stato battezzato, vorrei dire un grande grazie.
Per la bontà che lo contraddistingue e per l’ esempio che ci ha saputo dare. Un grazie ai fratelli e sorelle volontari per averci insegnato che in questo mondo c’è posto per tutti. Anche per le persone down che, fragili e indifese, sanno donare tanto amore a chi di loro si prende cura. Al caro, indimenticabile Marco chiediamo di intercedere per noi presso il trono dell’ Altissimo.
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