Era il 23 novembre del 1980, erano le 19:34 di una giornata stranamente calda nonostante le vetrine stessero iniziando a vestirsi a festa e la vita scorreva come al solito sino a quel minuto e venti secondi, un tempo brevissimo ma senza fine per la ferita che avrebbe procurato all’Italia, al Sud: il “disastroso terremoto” dell’Irpinia. 3000 furono i morti, 9000 i feriti, 300 mila rimasero senza tetto e 150 mila abitazioni andarono distrutte.
Il modo migliore per ricordare una tragedia “le cui ferite anche materiali non sono ancora del tutto rimarginate”, come ha chiosato ieri il Papa nei saluti del dopo Angelus, è raccogliere le testimonianze di chi operò in prima linea portando il suo sostegno alle popolazioni della Campania e della Basilicata così duramente colpite.
È il caso di Trinio Ludovico Maffei, all’epoca giovanissimo ma già al servizio dello Stato, il quale accorse sui luoghi devastati dal sisma iniziando a vivere quella che, seppur inconsapevolmente in quei momenti così concitati, sarebbe diventata un’esperienza indelebile e intensissima per i suoi risvolti di tragicità e, al contempo, di infinita umanità.
Sono trascorsi 40 anni da quel maledetto 23 novembre del 1980, il più grande disastro italiano dopo la Seconda Guerra Mondiale. Ci racconti la sua esperienza in prima linea?
“Nel lontano novembre 1980 prestavo servizio come impiegato civile presso la Prefettura di Foggia quando il devastante sisma colpì ben 14 Comuni della provincia del mio capoluogo. Nei giorni di primissima emergenza fui subito distaccato presso la sala d’attesa della stazione ferroviaria (Foggia è il secondo nodo ferroviario più importante d’Italia dopo Bologna) dove, con vari mezzi di fortuna, arrivavano impauriti perché segnati dalla tragedia molti sfollati dalla Campania, Basilicata e dalla mia stessa provincia con pochi effetti personali, con gli occhi pieni di lacrime e con i cuori affranti in quanto, in sede di censimento e di smistamento, mi raccontarono di parenti morti che giacevano sotto le macerie e di come loro, per varie coincidenze, fossero salvi.
Era straziante vedere quelle persone che, con grande umiltà, facevano la fila per ricevere qualche genere di conforto e conoscere la loro destinazione visto che avevano perso tutto: affetti, case ed effetti personali.
Il mio orario di lavoro sarebbe stato 8,00-14,00 ma, in realtà, mi trattenevo fino a tarda sera perché l’umanità e lo stato di bisogno di quella gente mi coinvolgeva profondamente e moralmente non riuscivo a staccarmene. Dopo tre giorni dal terremoto fui comandato di imperio a prestare la mia opera a Napoli dove, presso il Palazzo di Governo, si era insediato il Commissario Straordinario per le Zone Terremotate, il Ministro Giuseppe Zamberletti.
Regnava il caos più assoluto, giungevano funzionari dello Stato da tutte le parti d’Italia e bisognava organizzare gli Uffici per mettere in piedi la struttura Commissariale. Fui da subito impiegato presso l’Ufficio Stampa del Ministro dove lavoravo a stretto contatto con Prefetti, Ambasciatori, Dirigenti sanitari e Dirigenti di strutture tecniche oltre ai vari giornalisti. La stanza del mio ufficio era di fianco a quella della Rai ove operava con molto impegno un giovane Bruno Vespa che, ogni giorno, mi raccontava lo scenario apocalittico che si presentava ai suoi occhi quando in elicottero sorvolava le zone ferite dal sisma.
Ricordo che le nostre giornate erano interminabili: si iniziava alle ore 8 del mattino e si terminava con l’ultimo telegiornale della notte, non c’era tempo per mangiare neppure un fugace boccone e devo dire che l’impegno da parte del Ministro e di tutto lo staff era notevole, soprattutto perché non si era affatto preparati ad affrontare emergenze di tali dimensioni”.
Il terremoto dell’Irpinia fu, secondo Lei, anche la grande ferita in cui si riunì l’Italia intera?
“Non c’è dubbio! L’Italia non era preparata ad affrontare simili situazioni, però scattò una molla in tutti i cuori del popolo italiano. Scattò la molla della catena della solidarietà umana.
Tutti contribuirono a dare il loro apporto. Arrivarono aiuti non solo dall’Italia ma da ogni paese del mondo. La gente capì che era giunto il momento di unirsi per poter tirar fuori tutte le energie possibili e combattere questo inaspettato nemico della natura che non ti avvisa mai quando arriva per devastare tutto e cambiare la vita a chi ne è colpito.
Con il terremoto dell’Irpinia si iniziò a comprendere che bisognava difendersi ed organizzarsi dalle catastrofi naturali e si diede vita ad un organismo di vitale importanza, ieri come oggi, non a caso in prima fila nella lotta contro il Covid-19: il Dipartimento della Protezione Civile”.
Che ricordo ha di Sandro Pertini e della ben nota incapacità che mostrarono le istituzioni e decretarono il fallimento dell’Italia?
“Di Sandro Pertini ricordo il suo volto pieno di tristezza, di profondo dolore ma anche di grande rabbia. Rabbia per non essere stati capaci di affrontare meglio questa tragedia. Si rese conto di essere il Presidente di una nazione che non era in grado di difendersi. L’Italia si dimostrò incapace, impreparata e quindi per nulla organizzata.
Resta impressa nella mia mente, come in quella di tutti gli italiani, la frase “il modo migliore di ricordare i morti è quello di pensare ai vivi” che pronunciò a chiusura del discorso che fece a reti unificate, di ritorno dall’Irpinia, il 26 novembre.
Conservo, inoltre, in me un ricordo che restituisce l’immagine di un altro uomo delle istituzioni, del commissario di Governo per la gestione dei soccorsi in Irpinia, il Ministro Giuseppe Zamberletti. Era l’una di notte e sotto una pioggia torrenziale mi accingevo ad uscire dalla Prefettura di Napoli per attraversare, da solo e a piedi, i famosi quartieri spagnoli per raggiungere la caserma Bixio, meglio conosciuta come Pizzofalcone. Alloggiavamo lì, in camerate da 8 letti con muri, tra l’altro, lesionati dal sisma.
Ebbene, si fermò una macchina blu di grossa cilindrata appena uscita dalla Prefettura che stava conducendo in albergo il Ministro Zamberletti. Mi riconobbe, mi fece salire sull’auto e comandò alla scorta, con mio vivo stupore , di condurre prima me alla caserma e dopo lui. Mi disse “questo, per rispetto istituzionale, perché siamo tutti uguali e stiamo tutti sulla stessa barca”.
Di questa mia esperienza in prima linea, insieme alla tristezza e al dolore profondo di quell’evento, porto con me il ricordo umano, il trattamento umile e rispettoso che mi hanno riservato figure istituzionali molto alte e che, devo dire, non lesinavano impegno notte e giorno pur avendo limitazione di tutti i generi”.
Lascia un commento