L’Italia ce la può fare, ma è necessario che venga messa nelle condizioni di poter fare l’Italia. E il messaggio positivo, semplice ma al contempo deciso, lanciato da un numeroso gruppo di imprenditori e universitari, firmatari del manifesto “Oltre la crisi: L’Italia deve fare l’Italia”.
Il documento ricorda 2 importanti tendenze. Primo: l’Italia non è una delle vittime della globalizzazione, anzi. Negli ultimi anni, il Belpaese ha profondamente modificato la sua specializzazione internazionale, modernizzandola e ‘sincronizzandola’ con le nuove richieste dei mercati globali.
L’Italia ha saputo costruire valore aggiunto in settori – quelli tradizionali del made in Italy: il tessile-abbigliamento, le calzature, i mobili, la nautica – in cui ci davano per spacciati a causa della concorrenza dei paesi emergenti.
Si spiega così il fatto che nel 1999 il Paese era quinto nell’UE-27 per saldo commerciale normalizzato nei manufatti, e nel 2012 è salito al terzo posto.
La seconda tendenza: proprio grazie a questa nuova specializzazione – mentre la recessione globale e l’austerità facevano crollare la nostra domanda interna, e con essa Pil e occupazione – le imprese italiane hanno registrato eccellenti performance sui mercati internazionali. Secondo dati Eurostat, tra ottobre 2008 e giugno 2012 il fatturato estero dell’industria italiana è cresciuto più di quello tedesco e francese.
Non solo. L’Italia è il secondo paese dell’UE, dopo la Germania, per surplus commerciale con paesi extra Ue – i mercati più promettenti, quelli su cui si deciderà il futuro del commercio mondiale – per i manufatti non alimentari (con un attivo di 63 miliardi di euro nel 2012).
C’è dunque una via italiana alla green economy che bisogna sviluppare e sostenere. Un’economia verde in cui l’innovazione è un’attitudine che investe anche le attività più tradizionali – dove le eccellenze agroalimentari sono un volano per l’artigianato e il turismo, e viceversa – le cui straordinarie materie prime sono la qualità della vita, la coesione sociale, il capitale umano, i saperi del territorio. Ma servono riforme strutturali e politiche di lungo respiro.
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