Negli ultimi giorni, si è acceso un dibattito in Rete sull’origine delle mafie. L’occasione sono state alcune tesi dell’ultimo libro di Isaia Sales (“Storia dell’Italia mafiosa”).
Ho condiviso alcune conclusioni del testo, anche perché, sin dal 1993 (“Potere camorrista” edito da Guida), ero convinto della necessità di approfondire una storia organica, inserita nella successione delle epoche, della camorra e delle mafie in generale. Non storia isolata decontestualizzata, dunque, ma parte di una storia del Paese.
Perché le vicende delle mafie, nonostante le convinzioni di segno opposto di Benedetto Croce, erano e sono anch’esse inserite nelle vicende italiane e non solo del Sud. Dedicandomi anche allo studio storico delle camorre, pubblicai nell’ottobre del 2005 un saggio con la Utet (“La camorra e le sue storie”), che fu presentato a Roma nella sede della Commissione parlamentare antimafia a palazzo San Macuto, oltre che alla Facoltà di giurisprudenza a Napoli. Tentai un approfondimento, poi citato da molti autori successivi, della storia della camorra nella provincia di Napoli.
Autocitazione narcisistica? No, premessa necessaria a spiegare perché ho apprezzato il recente lavoro di Sales, su cui il dibattito però si è fermato all’unico tema che sembra dividere più degli altri: quando sono nate le mafie? E la discussione si è impigrita sulla contrapposizione etica nel Sud tra periodo unitario e quello, che lo ha preceduto, della Nazione napoletana delle Due Sicilie. Sales scrive una cosa molto semplice: le mafie ebbero origine nel periodo borbonico, ma poi si svilupparono, si consolidarono, divennero potere dialogante con gli altri poteri (politico, economico, sociale) nello Stato unitario.
Può scandalizzare una tesi, tanto condivisibile? Invece, c’è chi ha limitato la sua lettura solo sul dato dell’origine delle mafie, giudicando scontato e conosciuto il resto. Purtroppo, era conosciuta anche la premessa. Basta mettere insieme alcune date, rifarsi ad autori noti, accademici e non, di varie epoche (Marcella Marmo, Vittorio Paliotti, Alberto Consiglio, Francesco Mastriani, Marco Monnier) per rendersi conto che le mafie già esistevano, allora conosciute quasi tutte con il nome di camorra, nel periodo borbonico. Condizioni sociali particolari, urbanizzazione eccessiva nella Napoli capitale, favorirono gruppi organizzati di chi “faceva uscire l’oro dai pidocchi” come scrisse Monnier. Che poi significa estorcere ed esercitare attività delinquenziali su persone della stessa estrazione sociale, come piccoli bottegai, cocchieri, facchini.
La camorra e le mafie storiche sono parto dell’800: d’origine urbana quella di Napoli città, rurale quella siciliana. Ma già nel vicereame spagnolo ce ne erano progenitori, con tracce lasciate anche da Miguel de Cervantes che scrisse nel 1613 la novella Rinconete y Cortadilllo, dove descriveva un’associazione criminale con regole simili a quelle della camorra. Può meravigliare? In tutto il mondo, le organizzazioni criminali hanno le stesse caratteristiche violente, uguali regole. I “compagnoni” erano gruppi organizzati a Napoli di criminali del Seicento, descritti da più autori. Li frequentava anche Masaniello. Già allora esistevano le angherie di gruppi nelle carceri, in seguito fatte proprie dalla camorra, di cui fu vittima anche il poeta Giambattista Marino detenuto alla Vicaria nel 1598.
E poi il ruolo della plebe napoletana, su cui scrisse Atanasio Mozzillo, nel suo splendido “La dorata menzogna” e su cui affermò già nel 1988 lo stesso Sales: “La camorra rappresentò l’unica forma di organizzazione di potere della plebe, l’unica forma di mobilità in una struttura sociale totalmente chiusa. La camorra fu così fenomeno di classe e di massa, uno degli illegalismi più popolari della storia europea dell’Ottocento”.
Di quella massa violenta si servirono (e si servono) altri ceti sociali per affermarsi. Con l’unità d’Italia il Dio-voto offrì decisive occasioni di affermazione alle mafie. E, come ha scritto Sales, inutile negare il ruolo della mafia in Sicilia e della camorra a Napoli, nell’agevolare l’avanzata di Garibaldi. Nel periodo borbonico, tanti funzionari onesti si contrapposero alle mafie: il magistrato Pietro Calà Ulloa nel 1838 ne descrisse a Trapani la pericolosità, lo stesso Salvatore Maniscalco, capo della polizia a Palermo, fu vittima di un attentato mafioso.
I primi riferimenti della mafia in deposizioni politico-istituzionali ufficiali fu nel 1866, nei verbali della commissione che si occupò della rivolta in Sicilia di quell’anno. Dichiarò, in audizione, il duca Gabriele Colonna di Cesarò: “Credo che la maffia (sic!) sia un’eredità del liberalismo siciliano perché, quando cadde il feudalesimo, o dirò meglio quando il feudalesimo rinunziò da se stesso al suo potere (nel 1812), i Borbone ruppero la fede giurata alla Sicilia e da allora continuò una lotta continua, implacabile, tra la Sicilia e i Borbone. Naturale che quando si doveva fare una rivoluzione non si badasse tanto pel sottile alle fedi di perquisizione di coloro cui si ricorreva. Per me qui sta l’origine della maffia”. Questione storica dall’interpretazione aperta, come si vede. Inutile liquidarla in formule da partito preso.