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L’anniversario del Trattato di Maastricht è passato sotto silenzio. Ma bisogna ripartire da lì

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Il primo novembre 2013 è ricorso il ventesimo anniversario dell’entrata in vigore del Trattato di Maastricht. Si tratta di un anniversario che l’Unione Europea non ha celebrato con la medesima solennità con cui ha ricordato i Trattati di Roma. Come ogni primo novembre, gli uffici di Bruxelles della Commissione Europea e delle altre istituzioni comunitarie sono rimasti vuoti, visto che, come di consueto, i loro impiegati non hanno lavorato in occasione della festa di Ognissanti.

Anche il primo novembre 1993, non accadde nulla di particolare. A Bruxelles non ci furono cerimonie solenni, eppure, quel giorno, con l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht, è nata l’Unione Europea come la conosciamo oggi.

Il Trattato di Maastricht, firmato il 7 febbraio 1992 – nella tranquilla cittadina olandese di Maastricht sulle rive della Mosa –,  è stato il Trattato che ha creato l’Unione Europea con il nome odierno e gran parte delle istituzioni comunitarie che conosciamo oggi. Esso ha trasformato le finalità delle precedenti organizzazioni, come la Comunità Economica Europea, da un’unione solo economica ad un’unione politica. Inoltre, ha posto le basi della creazione della Banca Centrale Europea (BCE) e dell’introduzione dell’euro. Il Trattato, insieme a vari emendamenti, dichiarazioni e altri trattati sottoscritti negli anni successivi, forma il corpo giuridico che costituisce l’Unione, cioè i Trattati dell’Unione Europea, o, semplicemente, i “Trattati fondamentali”.

Tanta indifferenza stride, con il fatto che, questo Trattato è stato un punto di svolta nel processo d’integrazione europea, creando la moneta unica, la quale è, tuttora, il più potente simbolo della volontà del Vecchio Continente di concretizzare la propria unione. Tuttavia, anche l’euro non vive un periodo particolarmente felice, essendo sempre più esposto al vento dell’eurofobia, generata dal diffuso malessere di un’Europa fiaccata dalla crisi pluriennale del debito sovrano e da una disoccupazione devastante.

Infatti, l’Europa attuale è sempre più inquieta e si dimostra incapace di rilanciare il progetto di costruzione europea. Anzi, l’insofferenza dei cittadini è stata acuita da cinque anni di crisi economica e finanziaria e l’austerità ha preso il sopravvento sulla solidarietà tra i paesi membri.

Tuttavia, sarebbe riduttivo limitare la portata del Trattato di Maastricht alla sola moneta unica, in quanto tale Trattato ha rappresentato uno dei momenti più alti del lungo (e non ancora concluso) processo di unificazione dell’Europa unita, passando dalla Comunità solo economica (CEE) all’Unione Europea che, nelle intenzioni dei sottoscrittori, doveva essere non solo economica, ma anche politica e monetaria. Basti pensare che il Trattato ha dotato l’Unione si di una bandiera europea, quella con le dodici stelle dorate su campo blu che, ancora oggi, pur raggruppando l’Europa ben ventotto Stati membri, resta il simbolo dell’Unione Europea. In altri termini, il Trattato di Maastricht ha cambiato in modo definitivo la storia del continente, creando l’Unione Europea e fissando le tappe e i criteri della futura unione monetaria.

A tal proposito, la parte del Trattato che svolge, tuttora, un ruolo fondamentale è quella concernente i così detti “vincoli di Maastricht”. Si tratta di una serie di “paletti” contabili posti al bilancio pubblico di ogni Stato membro.

In estrema sintesi, questi vincoli costituiscono una serie di obiettivi che i vari Paesi membri hanno dovuto raggiungere prima di entrare nell’ultima fase che ha preceduto l’adozione dell’euro. Il primo vincolo concerne l’inflazione, che non deve essere superiore dell’1,5 per cento rispetto alla media degli altri Stati membri. Il tasso di cambio delle varie monete deve rimanere stabile ed ancorato ad un certo valore (con la conseguenza che ogni azione svalutativa delle preesistenti monete nazionali è stato stata resa impossibile) ed il tasso di interesse pagato sui propri titoli di Stato non ha potuto discostarsi troppo da quello degli altri Stato membri.

Tuttavia, i due criteri più importanti – e che sono ancora oggi al centro dei nuovi trattati e meccanismi comunitari – sono quelli concernenti il deficit (che si produce in caso  uscite del bilancio statale risultino superiori alle entrate) e quello del rapporto tra PIL e debito pubblico. Il primo criterio dispone che il deficit non deve essere superiore al 3 per cento del PIL ed, in caso contrario, è prevista una “procedura per eccesso di deficit” (quella da cui l’Italia è uscita lo scorso giugno). Invece, il secondo criterio prevede che il debito pubblico non deve superare il 60 per cento del PIL (quello italiano oggi è intorno al 130 per cento), ovvero, qualora fosse superiore, deve “tendere alla diminuzione”. Il significato di tale ultima affermazione è sempre rimasta molto oscura.

Appare evidente che riuscire a soddisfare questi criteri, ovvero sperare di vedersi riconoscere un’eccezione nel caso di uno sforamento,ha costituito, in questi anni, il principale dibattito tra i vari Stati membri. Tuttora, i Paesi che vogliono entrare a far parte dell’euro devono soddisfare questi criteri e la BCE pubblica, con cadenza biennale, un rapporto per verificare chi li soddisfa. Nell’ultimo di questi rapporti, pubblicato nel maggio del 2012, nessuno dei sette paesi che hanno fatto domanda è stato giudicato pronto per entrare nell’euro.

Come appare evidente, il Trattato di Maastricht contiene elementi di enorme importanza ed innovatività che sono stati capaci di condizionare la vita dei cittadini europei negli ultimi venti anni. Tuttavia, come, di consueto avviene nelle vicende comunitarie, l’attenzione dell’opinione pubblica e degli stessi politici che negoziarono accanitamente per due giorni e due notti nella cittadina olandese, venne concentrata più sui mancati accordi (come, ad esempio, il dissenso inglese che impedì l’approvazione della Carta Sociale), che dalla raggiunta intesa sulla moneta unica e sui sulle sue enormi conseguenze. Tutto questo è avvenuto anche perché la gran parte dei commentatori liquidò velocemente tale intesa, chiosando che l’unione monetaria non si sarebbe mai realizzata.

Tale scetticismo è comprensibile se si considera quanto fosse diversa l’Europa del 1993 da quella attuale. In primo luogo, in quel momento storico, vi erano solo dodici Stati membri, rispetto ai ventotto attuali. Sarebbe, però, riduttivo ridurre le differenze ad un mero dato numerico,poiché, in quegli anni, l’Europa stava vivendo la fine dell’Unione Sovietica, la caduta del muro di Berlino ed il contestuale processo di riunificazione tedesca, conclusosi nel 1992. In tale contesto, l’Europa doveva affrontare anche sulla difficile gestione della sanguinosa vicenda jugoslava, mentre si interrogava su come riposizionarsi dopo la fine della guerra fredda e della conseguente scomparsa della “cortina di ferro”.

Alcuni commentatori continuano, tutt’oggi, ad affermare che il Cancelliere tedesco Helmut Kohl riuscì a non sacrificare il marco a favore della moneta unica, pur di ottenere dagli europei il consenso alla riunificazione della Germania, ma, anzi, ricorse a tale argomento per convincere i riluttanti cittadini tedeschi ad abbandonare la loro amata moneta nazionale.

Anni fa, Tommaso Padoa Schioppa ricordò come proprio la caduta del muro e gli accadimenti ad esso connessi determinarono il percorso intrapreso dall’Europa nei venti anni successivi, senza che nessuno degli eventi succedutesi abbiano potuto scalfire quanto deciso a Maastricht. Tale considerazione ha trovato una conferma indiretta quando la crisi finanziaria ha colto l’Unione Europea a metà di un percorso iniziato, appunto nel 1993. A Maastricht, si stabilì che la data di avvio del processo finalizzato all’introduzione della moneta unica sarebbe stato  il 1° gennaio 1999. Tale data è rimasta invariata, nonostante il fatto che il contestuale processo di Unione monetaria e politica chiesta da Kohl e Mitterrand a Maastricht, non fosse stato realizzato, né in quel periodo storico, né, tanto meno, oggigiorno.

Infatti, nonostante la chiara consapevolezza che la mancata unione dei bilanci e delle politiche fiscali abbia esposto, in questi anni di crisi, i paesi della “Zona Euro”, a vari attacchi speculativi (a cui ha risposto la sola BCE diretta da Mario Draghi, mediante azioni decise e non convenzionali), i Paesi Membri non sono riusciti ad accelerare il processo di unione politica. Anzi, non si è andati oltre il mero snellimento dei processi decisionali, seppur in materia di politica estera e fiscale. Gli unici risultati concreti sono stati il riconoscimento della  cittadinanza europea (a seguito con l’introduzione del passaporto unico con l’ormai familiare copertina bordeaux) ed è stata creata la famosa “Area Shenghen”, nell’ambito delle così dette “cooperazioni rafforzate”.

Si tratta, ovviamente, di piccoli passi ben lontani dalla meta di una comune politiche politica estera e di difesa fissata a Maastricht. L’Europa non riesce ad interloquire nelle relazioni internazionali con se fosse un’unica identità, in quanto i singoli Stati membri sono stati ben gelosi nel conservare questa loro prerogativa.

In altri termini, a Maastricht, l’Unione Europea è nata mutilata, in quanto non è stata prevista l’immediata e contestuale creazione di una controparte politica alla moneta unica, capace di rappresentarla come un’unica istituzione. L’euro è rimasto orfano di un potere politico sovrano unitario che non si è mai realizzato nel corso di questi venti anni.

Per di più, diciassette anni dopo la stipula del Trattato di Maastricht, ci si è dovuti rendere conto che proprio questa nascita mutilata ha reso possibile l’attacco sistemico contro l’euro ed i debiti degli Stati membri più deboli (come l’Italia). Infatti, la sussistenza di potere politico europeo frammentato ed incapace di reagire con celerità ha permesso agli speculatori finanziari di scommettere sul fallimento della moneta unica, impiegando ingenti risorse monetarie per favorirne la sua disgregazione, per, poi, garantirsi esorbitanti plusvalenze.

L’Unione Europea è riuscita con molta fatica a resistere a tale attacco, attraverso l’intervento deciso e “non convenzionale” della BCE diretta da Mario Draghi. Tuttavia, questa vittoria ha avuto un prezzo molto salato poiché, oggi, l’Europa vive la sua più grave crisi economica del dopoguerra, unitamente al crollo di gran parte delle forme di tutela sociale ed la crisi strutturale delle economie di molti Stati membri, ormai, prossimi al collasso.

Tuttavia, lo scenario contemporaneo non può essere considerato come un evento inaspettato ed imprevedibile. Infatti, lo spirito di Maastricht è rimasto soffocato da una lunga serie di scelte egoistiche da parte dei Paesi membri che hanno finito per stravolgere anche alcune scelte operate a sua tempo per il bene dei cittadini europei.

I capi di Governo sottoscrittori di Maastricht erano perfettamente consci che il Trattato era nato mutilato e che gli egoismi nazionali avrebbero comportato scelte aberranti e pericolose per i cittadini europei. Così, nel corso dei quindici anni successivi alla sottoscrizione del Trattato, si è cercato di completare l’opera rimasta incompleta a Maastricht, mentre l’Europa continuava ad ingrandirsi, allargandosi verso Est. Con il Trattato di Amsterdam del 1997 si è introdotta la Carta Sociale e sono state abolite le frontiere. Con il Trattato di Nizza del 2000, si è cercato di adeguarsi all’allargamento dell’Unione, senza, però, ottenere una reale crescita della dimensione politica. La Costituzione Europea, firmata a Roma nel 2004, si è configurata come l’ennesimo tentativo di creare una identità politica, ma questa esperienza è sfiorita subito, a seguito della sua bocciatura operata dai referendum di Francia e Olanda. Infine, il Trattato di Lisbona del 2007 ha cercato di compiere ancora qualche timido passo in avanti. Ognuna delle predette iniziative è risultata decisamente infruttuosa, lasciando l’Unione Europea, inerme ed incapace di reagire unitariamente alla crisi finanziaria globale, generatasi inizialmente negli Stati Uniti nel corso del 2008.

I capi di Governo europei accettarono un accordo mutilato nella notte del 7 febbraio 1992, in quanto essi erano convinti che, a seguito dell’introduzione della moneta comune, tutti gli Stati membri sarebbe stati costretti ad accettare anche la costituzione di un governo comune.

L’erroneità di tale previsione è chiaramente  rinvenibile considerando che il processo di unione politica è stato risvegliato soltanto dal tragico avvento della crisi economica. Infatti, negli ultimi cinque anni, contraddistinti dal continuo assalto speculativo alla moneta unica, l’Europa ha introdotto un numero di interventi correttivi alle falle sistemiche lasciate aperte dal Trattato decisamente più elevato, rispetto al numero di tutte le precedenti azioni adottate nei quindici anni precedenti. Purtroppo, tali interventi sono stati dettati soltanto da logiche emergenziali ed episodiche, senza che la loro introduzione fosse dettata  da un unico e coerente progetto sistemico.

In estrema sintesi, bisognerebbe ritrovare lo spirito perduto a Maastricht e prendere atto di tutte le sofferenze patite dai cittadini europei, tornando metaforicamente sulle sponde della Mosa, per analizzare ed eliminare i danni che una non ancora costituita Patria comune europea ha imposto ai suoi figli prima ancora di essere realizzata.

Siffatta considerazione trova particolare conferma considerando le scelte effettuate in materia economica dall’Unione Europea. Il famigerato patto di stabilità (e di crescita), inizialmente ideato con il solo scopo di vigilare sul rigore degli stati, è stato snaturato nel corso di questi anni, dagli stessi Stati membri che lo avevano introdotto. Basti ricordare la decisione di accontentare, nel 2003, la Francia e la Germania – responsabili di un importante sforamento dei rispettivi deficit – ,concedendo loro una revisione del patto di stabilità.

In altri termini, non si è saputa superare una interpretazione rigida che hanno finiti per rendere il patto “stupido, ma utile” (così come lo definì l’allora Presidente della Commissione CE Romano Prodi nel 2002).

La conseguenza di tale stravolgimento del patto di stabilità è la recente introduzione del così detto “fiscal compact”, il quale si limita a vincolare i bilanci dell’Unione Europea in maniera astrattamente ragionieristica, poiché deve confrontarsi, soccombendo, con le geometrie variabili prodotte dalle scelte fiscali e politiche dei singoli Stati membri, in assenza di una sempre più necessaria politica comune in materia.

In questi anni di crisi, il dibattito si molto concentrato su quali Stati membri abbiano tratto maggiori benefici dall’introduzione dell’unione monetaria e della sua moneta unica, l’euro. Appare evidente come la Germania sia stata capace di distinguersi come lo Stato membro maggiormente capace di trarre il massimo vantaggio possibile dall’unione monetaria, mentre l’Italia ha soltanto subito passivamente il passaggio alla moneta unica.

Tale conclusione è vera soltanto in parte, poiché anche l’Italia era nelle condizioni per trarre profitto dall’introduzione della moneta unica. Purtroppo, negli ultimi venti anni, l’Italia si è contraddistinta per un diffuso e persistente immobilismo in tutti i settori della sua società e della sua economia. Invece, l’unione monetaria richiedeva la capacità di rivedere dinamicamente e velocemente l’intero impianto del “sistema Paese” italiano, magari stravolgendo le politiche economiche e fiscali, cancellando posizioni di rendita sedimentate nel tempo, che hanno finito per abbattere quella competitività costruita dalle generazioni precedenti, relegando la nostra economia ad un ruolo residuale nello scacchiere mondiale.

Ciononostante, il Trattato Maastricht ha salvato l’Italia, poiché, a seguito dell’introduzione dell’euro, si è riusciti ad abbattere significativamente la spesa sostenuta per gli interessi, fino al punto che è stato possibile tenere l’immenso debito pubblico italiano.

In conclusione, affinché lo spirito originario del Trattato di Maastricht trovi una sua compiutezza, necessiterebbe la capacità d’individuare nuovi obiettivi condivisi tra gli Stati membri, che non possono limitarsi ad ambire soltanto al raggiungimento di quell’unione bancaria, che è comunque già stata perseguita, essendo diventata il tratto più significativo della BCE gestita da Mario Draghi. Infatti, l’unione bancaria sarà una realtà tra un anno, nonostante che la crisi abbia create qualche scetticismo in merito presso quale Stato membro.

In altri termini, l’Unione Europea vive un momento di smarrimento, nel quale non riesce ancora a rinvenire quegli obiettivi di lungo respiro, capaci di delineare il futuro dell’intera Europa, così come avvenne, venti anni fa a Maastricht, dove, pur con qualche limite ed ingenuità, l’Europa è stata capace di guardare avanti verso un futuro migliore e condiviso.

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Published by
Germano De Sanctis