I lavoratori del polo oncologico di Catanzaro non rischiano più il licenziamento collettivo. Bene. La chiusura coatta della Fondazione Campanella, infatti, avrebbe rappresentato non solo una pessima notizia in termini di posti di lavoro perduti ma avrebbe definitivamente sigillato il fallimento della Regione Calabria, governata da una politica irresponsabile e sorda alle esigenze più intime e viscerali dei calabresi.
Una buona notizia dunque? Solo a metà. Le storie di cattiva sanità, infatti, non sono nuove e noi calabresi abbiamo purtroppo familiarità con vicende e vicissitudini spesso simili a vere e proprie odissee in ospedali sporchi, malfunzionanti, malgestiti, dove il paziente è un numero e non una persona che soffre. Molti di noi, purtroppo, hanno dovuto subire l’offesa di sentirsi ultimi, italiani di seconda categoria costretti a vivere con chi nasce e cresce altrove un gap non solo economico ma di cittadinanza. Perché non si è italiani allo stesso modo se una siringa costa di più qui che altrove, se un ospedale funziona meglio qualche kilometro a Nord, se per fuggire alla malattia c’è chi, costretto ad andarsene, s’ammala invece di nostalgia – per una casa e una famiglia, luogo di ritorno sperato e distante.
Storie, vicende, legate al passato? Difficile dirlo. Ma stando ai numeri non ci sono fondi da investire per invertire la rotta. Secondo il IX Rapporto Sanità Cies-Crea dell’Università Tor Vergata di Roma ulteriori tagli non sarebbero sostenibili per il sistema sanitario nazionale, eppure si tratta di un settore in cui si investe sempre meno. E poco. L’Italia spende il 24% in meno della media UE. Grave – prevedibilmente – la situazione delle regioni sottoposte a pieni di rientro sanitari dal 2007 – Lazio, Abruzzo, Liguria, Campania, Molise, Sicilia, Sardegna e Calabria. Qui i cittadini spendono di tasca propria per curarsi, ricorrono più spesso ai servizi privati.
Insomma. Affronto il tema perché è la cronaca che me lo impone. Nazionale e locale. Pur se, infatti, i lavoratori della Fondazione Campanella, grazie all’accordo in prefettura firmato un paio di giorni fa, possono tirare un sospiro di sollievo, cosa dire invece dei pazienti, i quali potrebbero non avere garantite le proprie terapie per il prossimo futuro? La voragine di debiti della fondazione è infatti tutta là. Di stanziamenti economici, a sentire il Presidente della Campanella, Paolo Falzea, non ce ne sarebbero. «La situazione materiale non è cambiata» ha detto, come riporta un giornalista de Il Quotidiano della Calabria.
Ecco, allora, quale è il dramma. In Calabria – ma non solo in Calabria, purtroppo – la politica governa in emergenza, pensa in emergenza, opera in emergenza. A causa di consolidate inettitudini, di annose sordità, o semplicemente per conseguenza di una diffusa mentalità dell’attesa e del rinvio, l’emergenza è diventata la normalità, è nella prassi delle cose. Là dove c’è emergenza, però, non c’è mai vero cambiamento. È come se i problemi restassero sempre sospesi, aperti, irrisolti. Come se le soluzioni, le quali spesso richiedono uno spirito radicale e una ferrea volontà, fossero sempre demandate a qualcun altro, a chi verrà dopo, ai calabresi – in questo specifico caso – di domani.
Così, nel tempo la cattiva sanità è diventata storia nota e abbiamo perso una dote preziosa: la capacità di sorprenderci e reagire. Stanchi di non poterci nemmeno curare per bene – se non, come è ovvio, pagando per ricevere un diritto trasformato così in un bene d’acquisto – consideriamo la cattiva sanità un problema noto, già sentito, ovvio.
Non sono però avvezza alla rinuncia e tanto meno alla lamentela. Preferisco immaginare le risposte forse perché la mia storia mi ha donato quello spirito radicale di cui dicevo prima: radicale nel voler cambiare le cose, nel pretendere di lasciare un segno.
Una strada, allora, per condurre i pazienti calabresi, e meridionali tutti, alla salute c’è e a Salerno qualcuno la sta percorrendo. Si tratta di Patrizia Stasi del consorzio La Rada che, insieme al comune di Salerno e grazie al sostegno della Fondazione conil Sud, si occupa del S.I.S.A.F.: il sistema integrato socio-ambulatoriale per le famiglie. 42 professionisti, medici, si sono associati per fornire 7 giorni su 7 a prezzi accessibili cure a chi altrimenti non potrebbe permettersele. Mille famiglie grazie al progetto possono accedere alla salute, possono guardare al futuro con più serenità.
Una storia isolata? Una buona esperienza? Non solo. Sisaf è un modello da seguire. Mostra che una strada c’è: associazioni – tra medici, in questo caso – e amministrazione devono collaborare. Dove i cittadini sono più coinvolti nella soluzioni dei problemi quelli, i problemi, poi si risolvono davvero. Può essere il caso anche della malasanità. La battaglia più dura – e dolorosa – che dobbiamo combattere. Ma di fronte alla quale, per non lasciarci andare alla desolazione della rinuncia, non possiamo fare nemmeno un passo indietro.