È trascorso ormai un anno dal contagio sul territorio italiano, con relativo lockdown. Un anno che ha cambiato, ed a volte stravolto, la vita della persone.
Tutto ha mutato forma. Le giornate hanno assunto altri ritmi, la socialità è stata deformata al punto di ridursi ad un saluto fugace. Abbiamo imparato a schivarci con garbo.
Passiamo tra le strade e non ci riconosciamo. Ad alcuni, la mascherina che indossa, cambia l’aspetto. Lo rende anonimo. Bisogna indossare il soprabito dell’anno scorso, affinché ti si noti inoppugnabilmente.
Sottolineo non certo a mo’ di protesta, come capita da parte di qualcuno che non ha capito i crismi comportamentali, ma solo come aspetto descrittivo.
Se ci focalizziamo poi sul Sud, la pandemia ha avuto sul piano sociale un effetto diverso, tra i paesi della costa e quelli degli Appennini. Tra le città ed i borghi.
È ovvio che vivere in 700 abitanti sopra una collina è un conto, trovarsi in una città è altro. Quando scrivevo del non riconoscersi, mi riferivo alle città. Nei paesi si individua la fisionomia, perché la si è rimandata a memoria. Ma lo schivarsi è analogo.
Mi diceva un amico del paese dove sono vissuto per oltre vent’anni, che l’aspetto di solitudine è diventato devastante. “Vado in piazza e non vedo nessuno. Nemmeno un’anima. Qui in azienda non viene alcuno. Passiamo le ore così, a riflettere.”
Già, a riflettere. Chiusi nelle case v’è stato tempo per pensare. Ci siamo ricordati di vecchi amici, abbiamo imparato ad usare più efficacemente internet per videochiamarci, per mandare foto e messaggi che non avremo mai mandato. In qualche ambiente familiare sono emersi legami più saldi, in altre delle tensioni. Vecchi affetti sono venuti a galla, così come a volte vecchi rancori. Ho parlato con molte persone ed è andata proprio così.
La pandemia, chiusi nelle quattro mura, ha cambiato molti caratteri. A chi in meglio, a chi in peggio. Questo virus non ha avuto solo un devastante impatto sociale, ma anche un cospicuo riflettersi psicologico. Ma dell’ultimo si parla poco. Si è cambiati dentro e chissà che società troveremo quando tutto sarà finito. Chissà come saremo. Forse il timore di avvicinarci l’uno all’altro, rimarrà per anni, ben oltre l’aggressione del virus.
Ricordo di un brano che lessi in sede storica, che riguardava una devastante peste del ‘400. In Europa rimasero in vita solo sette milioni di persone. “Erano spettri. Vagavano nei boschi. E quando si incontravano scappavano l’un l’altro”
Queste tragedie l’umanità le ha vissute e ne serba memoria anche genetica. Come la paura comune per ragni, serpenti e ratti, che è atavica e rappresenta la paura di animali che non esistono più.
La nostra diffidenza di fondo che nutriamo verso una parte del prossimo, è un aspetto antropologico che riguarda altre paure. È materia del passato, magari di altre pandemie.
Vi sono tanti spunti su cui riflettere. Anche troppi. Ci si chiede dove finirà tutta questa rabbia derivata dalla frustrazione.
Ci ha colpito la storia del rave party di Milano, finito in gigantesca rissa. Come le vicende di ragazzi, che si danno appuntamento con i social in punti preordinati, per picchiarsi senza alcun motivo.
È l’aggressività che fuoriesce e fa compiere gesti senza logica di gruppo, se non quello del branco. E torniamo dunque all’antropologia.
L’isolamento è stato anche l’effetto dell’istinto di conservazione che serbiamo nel nostro animo. Tante dinamiche si sono messe in atto in una situazione surreale, inimmaginabile.
Ho messo insieme molti concetti senza un ordine ortodosso. Sono tanti flash di situazioni che l’umanità sta vivendo. Un giorno l’ordine tornerà, perché le società tendono sempre ad organizzarsi e non a disgregarsi. Bisogna avere fiducia. Comunque dobbiamo averne. Altrimenti vi saranno problemi più insormontabili. Altrimenti per ricostruire, impegneremo più tempo. E non possiamo permettercelo. Per noi stessi e per i nostri figli.
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