Il Sud è fatto di luoghi popolosi e luoghi deserti. Anche troppo.
Perché il suo territorio crea queste difformità. Molto costantemente.
Gli Appennini disegnano un crinale trapuntato di piccoli borghi. Essi sono da circa 70 anni vittima dell’emigrazione moderna e da circa 20 dell’abbandono di massa.
Si va via non più per emigrare, ma come normale sbocco di vita. E così, tanti posti dotati di robusti concetti di campanile, sono diventati più vulnerabili. Con un canale di uscita continuo che porta in luoghi diversi.
Per chi rimane, c’è solitudine. Sempre più percettibile.
Si è così creata una civiltà di “uomini soli”. Tante anime che risentono del vuoto di chi se n’è andato e li ha tramutati a “poche unità”. A volte così esigue, che si fa fatica a creare una comunità.
E quindi le scuole chiudono, con i bambini e ragazzi costretti ad andare in comuni vicini.
Si è lottato tanto per averle quelle scuole ed ora si assiste alla loro scomparsa.
Uno dei tanti risvolti.
Ma la solitudine dell’uomo del Sud risiede anche nel pensionato, che vede ridursi i suoi anni ed i suoi affetti, ormai lontani mille chilometri.
Tanta gente che ha speso mezza vita per permettere ai figli di studiare, consegnandoli involontariamente a luoghi lontani. Gente che paradossalmente ha finanziato la propria solitudine.
È un meccanismo che ormai conosciamo, ma non siamo riusciti a fermare, perché non ha soluzione.
Bisognerebbe investire sul futuro dei figli in loco. Ma non per proprio egoismo, quanto per far sopravvivere le comunità, affinché rimangano tali e non diventino “un gruppo di case senza un futuro”.
L’uomo di un pezzo di Sud è rimasto solo. Ed è questa la sua nuova condanna. Il nuovo grido di allarme di questo ampio luogo.
Chiusi nelle case, perché la certezza di non trovare alcuno in strada, pone in una situazione letargica.
Rimangono le feste comandate per rivedere gente. Ma l’emigrato non torna più nella sua terra. Perché anch’esso teme di imbattersi nella solitudine, se pur di qualche giorno. E perché ormai i ricordi della sua terra sono sbiaditi.
Sono uomini e donne partiti cinquanta anni fa e che non hanno più nulla che li leghi al loro paese. Ed i figli non ne conoscono i nomi.
La generazione degli emigranti ha ormai oltre sessant’anni e non ha più un senso per loro tornare.
Anche se poi la casa paterna è ancora lì, disadorna e decrepita. Ma è un ricordo solo per via degli adempimenti fiscali.
Nelle piazze del Sud, in quella dorsale appenninica, è rimasto ben poco. I “resistenti” provano a vivere di passato, oppure a sfruttare i pochi mezzi a disposizione e reinventarsi per sopravvivere. E si utilizzano tutti gli spazi esigui che le contingenze pongono in essere. Vivendo “facendo finta di niente”. Come se il presente possa cancellarsi e perché è più conveniente, per “crederci ancora”.
Credere che arrivi un messia a salvarti, che l’uomo nuovo risolva i problemi. Credere che possa accadere qualcosa.
Si è vissuti di speranza, ora si vive di inerzia di speranza.
Ed un ufficio postale chiude, poi una farmacia. Rimane solo l’alimentari trasformato in bazar. Rimane solo il bar, con annesso alimentari. Quante volte abbiamo visto questo film.
Si può obiettare che così muoiono anche i paesi della Val d’Aosta o del veronese. Ma intorno, scendendo verso Torino o Verona, vi è il fermento delle industrie e del terziario. Al Sud si trovano gli agglomerati urbani in preda ai loro problemi.
E la pandemia ha reso ancora più netta la sensazione di solitudine. La piazza del Sud è ancora più deserta. Il far finta di niente non è più praticabile, come difesa psicologica. Ora la realtà ti sbatte in faccia. C’è stato troppo tempo, in questi ultimi mesi, per riflettere la propria condizione.
La solitudine è stata individuata in tutta la sua dimensione. Ed al ritorno alla normalità vi sarà più consapevolezza.
L’uomo del Sud è rimasto solo. E la peggior sensazione è che la solitudine, un po’, l’ha costruita con le proprie mani.
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