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Il presidente che arriva dal dolore

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Proprio per questo e per rispetto della storia reale – che è altra cosa dai panegirici e dalle oleografie – non si può dubitare nemmeno della coerenza e della serietà, vorrei dire, dell’intensità del suo impegno politico, anche come uomo di parte e di corrente.

Sergio Mattarella arriva alla politica dall’esperienza del dolore, il dolore indicibile e instancabile di aver tenuto tra le braccia un fratello, crivellato, insanguinato, morente. Certo, per educazione ed empatia famigliare – il padre, Bernardo, avvocato siciliano e ministro della Repubblica, il fratello maggiore, Piersanti, presidente della Regione Siciliana – la politica sapeva già cosa fosse, ma, oltre che per passione, aveva scelto di fare il professore universitario, forse anche per non affollare di famigliari la stessa scena. Invece, a quarant’anni, la tragedia lo ghermì e lo obbligò. Lo obbligò a raccogliere l’eredità politica del fratello e a trasformare quel sangue fraterno in un personale, adulto, battesimo, più forte di una vocazione naturale.

E per venticinque anni Sergio Mattarella ha fatto politica come dirigente di partito, parlamentare, ministro, vicepresidente del consiglio, sempre militando in quella corrente della sinistra democristiana che nella tempesta del ’92 riportò questa parte di una DC ormai spaccata al Partito Popolare, poi alla Margherita di Prodi e, infine, al Partito Democratico.

Negli anni ottanta, Mattarella, insieme con molti altri dirigenti della DC siciliana come Calogero Mannino, Leoluca Orlando Cascio, è uno dei giovani esponenti su cui punta Ciriaco De Mita per rinnovare la DC siciliana cambiandone il gruppo dirigente. La strategia politica è comune ed è quella dell’attenzione e dove possibile quella dell’alleanza con il PCI. A Palermo è possibile, così possibile che la “giunta anomala” – anomala perché divergente dall’alleanza nazionale di centro sinistra – diventa realtà nel 1987, quando, con un brusco voltafaccia Orlando, sindaco del pentapartito e Mattarella leader del partito, stringono un accordo con il PCI e Orlando viene rieletto sindaco con una nuova giunta.

L’alleanza tra i due partiti maggiori – oggi a Palermo domani forse a Roma – privava la democrazia italiana dell’elemento dialettico fondamentale e metteva i socialisti e i laici con le spalle al muro: o cedere acconciandosi a un ruolo subalterno o tentare un’opposizione di principio e sui fatti amministrativi.

Scegliemmo l’opposizione. Il duello s’infiammò e quando Orlando Cascio, di fronte al successo elettorale socialista – a Palermo come in Italia – accusò i socialisti di aver ricevuto voti di mafia la polemica si fece rude, il clima si intossicò. Con il mio concorso e quello di Orlando e Mattarella. Io temevo il compromesso storico, l’incontro tra due chiese politiche, e in particolare il compromesso storico alla siciliana, quello che si riduce a trasformismo, a gattopardismo.

Come spesso nella storia della Democrazia Cristiana, partito stato, le alleanze esterne erano il motivo e l’arma per regolare i conflitti interni e cambiare gruppi dirigenti. In quel contesto specifico, l’accordo con il PCI serviva non solo a scavalcare i socialisti – in ossequio più a De Mita che a Moro – ma a liquidare gran parte della vecchia DC compromessa dal malaffare e dalle collusioni mafiose.

E buona parte della vecchia DC venne messa ai margini in nome del rinnovamento e dell’antimafia. Gran parte certo, ma non tutta.

Vediamo.

Quattro anni dopo “la primavera palermitana”, nel 1991, Giovanni Falcone viene interrogato dal Consiglio superiore della magistratura su denuncia del sindaco Orlando Cascio che lo ha accusato di “tenere chiuse nei cassetti della procura le carte che portano ai mandanti politici degli omicidi eccellenti”.

Ma com’è possibile? Cos’è successo? Il giudice più famoso al mondo, il giudice che, per la prima volta, ha saputo processare e ottenere la condanna della cupola mafiosa, da Totò Riina in giù, sarebbe inerte, omertoso, colluso con Cosa nostra? Oppure Orlando – l’eroe della primavera di Palermo – si è bevuto il cervello? O, magari, chiedono i magistrati che interrogano Falcone, “Ci sono questioni personali?”

Falcone è indignato ma fornisce una spiegazione logica che chiarisce l’altrimenti incomprensibile, improvviso, violento, voltafaccia di quello che un tempo considerava un vero amico:

“Probabilmente Orlando e suoi amici hanno preso come un inammissibile affronto il mandato di cattura contro Ciancimino che … riguardava episodi di corruzione molto seri, molto gravi, riguardanti la gestione del comune di Palermo”.

Dunque tra i risultati della “primavera palermitana” c’era anche questo, che Ciancimino era tornato a imperare sugli appalti del Comune, “appalti miliardari relativi alle fognature e all’illuminazione della citta’.”

Falcone, come d’abitudine, aveva seguito le tracce dei “piccioli”, dei soldi, e aveva trovato gli assegni girati a Ciancimino dal conte Vaselli, (“a Palermo una vera autorità” in materia di appalti miliardari), un’autorità, da sempre. Vaselli e Ciancimino, infatti, erano già stati denunciati molti anni prima da Pio La torre nella relazione di minoranza alla Commissione parlamentare antimafia. E dei loro affari sporchi e del loro “ritorno” al potere si era lamentato a Roma un angosciato Piersanti Mattarella, presidente della Regione, manifestandola a un ministro degli interni che gli parve poco attento.

Poco dopo Piersanti venne massacrato sotto gli occhi dei familiari. Caso quasi unico, i mandanti, cioè la cupola mafiosa, vennero condannati in solido, viceversa gli esecutori non vennero mai trovati.

La Torre, sindacalista e politico di primo piano la lotta alla mafia la faceva da sempre. E ne morì trucidato due anni dopo Piersanti Mattarella di cui era amico. Era il leader regionale del PCI e a lui spetta il merito dell’introduzione di un nuovo reato nel codice penale, il reato di associazione mafiosa. Configurare giuridicamente questo reato era indispensabile per contrastare le cosche e poterne sequestrare i patrimoni illeciti. Per capirne l’importanza basti dire che a quella proposta collaborarono Falcone e Borsellino e che, senza di essa, anche le decisive misure antimafia, comprese quelle che varai da Ministro della giustizia nel ’91 e nel ’92, sarebbero state prive di fondamento giuridico.

Le parole di Pio La Torre mi entrarono nella testa come un rovello comprese quelle dedicate ai padri dei due dioscuri della nuova DC antimafiosa, Bernardo Mattarella, padre di Sergio, e Salvatore Orlando Cascio padre di Leoluca. A pagina 575 del verbale della relazione di La Torre alla Commissione Parlamentare Antimafia si legge: “La regione Siciliana fu impiantata da uno schieramento politico che era l’espressione organica del blocco agrario e del sistema di potere mafioso” e ne facevano parte esponenti della DC come “Aloisi, Alessi, Milazzo, Scelba e Mattarella”… “Mattarella e il suo uomo di fiducia, l’avvocato Orlando Cascio”. E più avanti Pio La Torre ribadisce: “.. gli altri che più organicamente e stabilmente hanno espresso il sistema di potere mafioso … sono notai e avvocati” e ne cita molti e, tra questi, l’avvocato Orlando Cascio”.

Forse si sbagliava La Torre ma non credo di molto, comunque scrive:

“Dopo il 1948 la DC apparve come il partito più forte e si assistette al passaggio in massa nelle fila della DC di grandi mafiosi con tutto il loro imponente apparato di forza elettorale”.

Quel gruppo dirigente della DC s’impegnò nel “recupero su posizioni autonomistiche di coloro che avevano fatto la scelta separatista”. Nello stesso tempo in cui Scelba e poi Restivo, ministri siciliani degli Interni, si impegnarono nella repressione violenta, militare e giudiziaria dei moti contadini – scriveva ancora La Torre – Cosa Nostra si dedicava all’eliminazione fisica di dirigenti sindacali socialisti e comunisti da Placido Rizzotto a Epifanio Li Puma, a Rino Cangelosi.

Così, quando, nel 1992, dopo l’assassinio di Salvo Lima e dopo reiterati attacchi a Falcone, reo di collaborare con il Governo Andreotti del quale io ero vice-presidente e del quale aveva pur fatto parte, come ministro dell’istruzione, Sergio Mattarella (Orlando Cascio aveva fondato un suo movimento, detto La Rete), si rinfocolò la polemica avvelenata sui voti di mafia.

Ancora una volta eravamo in piena campagna elettorale: io non esitai a rilanciare le identiche accuse di mafiosità rivolte da Pio La Torre contro i padri dei due dioscuri antimafia.

Sergio Mattarella, mi rispose con toni ingiuriosi. Io non replicai più. Ero convinto delle mie ragioni politiche ma, torto o ragione, un padre è un padre e un figlio ha il diritto di difenderlo.

Tuttavia, quando la polemica politica che già di per sé tende alla faziosità, si mescola con i sentimenti umani più profondi, è naturale che ne sorga una gran confusione tra le passioni, il giudizio politico, quello morale e quello giuridico/amministrativo che sempre più sembra accerchiare la nostra vita.

Succede allora che l’analisi perda di lucidità e le prevenzioni, pro o contro, con il loro carico di emotivo, travolgano l’imparzialità.

Con la sua corrente di partito e di pensiero Sergio Mattarella ha realizzato il suo sogno politico, quello cui ha partecipato da protagonista: l’incontro tra la cultura cattolica democratica e quella comunista. L’incontro vietato e solo tentato nella Prima Repubblica diventa pienamente percorribile con la caduta dei muri.

Da questo lungo travaglio è nato il Partito Democratico reale. Quello ideale che io avevo disegnato, d’impronta laica e socialista, ideale rimase nella Prima e ancor più nella Seconda repubblica.

Ora, il ciclone Renzi ha decisamente secolarizzato il PD ben oltre le culture politiche d’origine. Tuttavia, quando si è trattato di scegliere il Presidente della Repubblica, Renzi non ha esitato, ha scelto Mattarella. Per affinità elettive credo, oltre i calcoli politici. Di generazioni diverse Mattarella e Renzi sono figli della stessa storia, iscritti in periodi diversi ma in percorsi politici uguali, da vent’anni. Oggi uno è presidente della repubblica l’altro è presidente del consiglio con poteri inusitati che usa con la forza della sua leadership e un consenso grande che l’assenza totale di un concorrente credibile esalta.

Insieme al quasi monopolio del potere pubblico del PD il fatto che, in questa situazione, Renzi abbia scelto, come Presidente della Repubblica, un leader del passato della propria stessa corrente, l’uomo più vicino e congeniale come tradizione ed esperienza politica, sembra, a molti, perfezionare un’ impressionante concentrazione di potere.

Renzi non ha il dovere di rappresentare tutti gli italiani, gli basta la sua maggioranza. Mattarella sì, deve farlo, oltre la maggioranza che l’ha votato che credo sia più larga di quella di governo, fino ad ascoltare chi non l’ha votato e la metà degli italiani che, plausibilmente non persuasa delle attuali offerte politiche, si astiene.

In questa apertura l’aiuteranno l’esperienza del dolore e dell’essere stato a lungo minoranza.

Sono passati tanti anni, anzi, per alcuni eventi di cui ho parlato è passata un’epoca e tutto appare oggi datato e come sfocato persino nella memoria dei protagonisti. Forse non ha tutti i torti chi contrappone al dovere della memoria il diritto all’oblio.

Il ”bisogno di oblio ”, diceva il Gattopardo, se il Gattopardo è l’anziano principe di Salina che sta morendo con il tramonto della sua epoca aristocratica restando fedele a sé stesso.

Ma il Gattopardo che resta nell’immaginario collettivo è l’altro, il giovane principe, il nipote spregiudicatissimo, l’aristocratico trasformista che sposa la figlia del commerciante più ricco e i suoi soldi, si mette per un pò la camicia rossa dei garibaldini e poi partecipa alla sostituzione dei Savoia ai Borbone e di un ceto politico a un altro, sfrontato nel suo cinismo totale:” Bisogna che tutto cambi perché tutto resti uguale”.

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Published by
Claudio Martelli