Se n’è andato in un giorno difficile da dimenticare, il 21 marzo e in un periodo in cui il ciclismo, il calcio e tutto lo sport sono fermi, come è ferma l’Italia intera.
Gianni Mura è morto a Senigallia, in ospedale per un attacco cardiaco, ad un amico aveva detto che era in ritiro per preparare il Tour de France. Non lo racconterà questa volta, forse, non lo racconterà nessuno.
Non ho mai incontrato di persona Gianni Mura, ma come per molti italiani è come se lo avessi conosciuto, come se lo conoscessi da sempre. Sicuramente lo leggevo dal 1976 anno in cui iniziava la sua collaborazione con la Repubblica.
Suo mentore, amico e maestro è stato Gianni Brera, lo scrive nel pezzo che dettò dal Ta’ Qali Stadium di La Valletta, dopo la vittoriosa partita della nazionale italiana contro Malta, pubblicato il 20 dicembre del 1992, «Ti è andata bene, è forse l’unica consolazione, amico, maestro, pezzo di cuore che se ne va. Sei morto nella Bassa, vicino a dove sei nato. Non avrei mai voluto scriverne». E quando morì Brera, la famiglia regalò proprio a lui, a Gianni Mura, una delle quattro macchine da scrivere portatili del maestro.
Un sodalizio forte e lungo quello tra il maestro e l’allievo prediletto.
Gianni Brera aveva inventato un modo nuovo di raccontare lo sport e da fine uomo di lettere era stato capace di trasformare la cronaca di un avvenimento sportivo in qualcosa d’altro e di più.
Gianni Mura aveva alzato ulteriormente l’asticella. È stato capace di rendere la cronaca sportiva materiale per la letteratura facendo coesistere il ritmo incessante dell’avvenimento, hic et nunc, con una narrazione capace di liberarsi dal contesto da cui prendeva le mosse e raccontare l’uomo e il suo modo di stare al mondo. Ha trasformato la sua condizione e il suo pensare, prima ancora delle gesta sportive, in epica moderna.
Brera era una prima donna. Gli piaceva essere al centro dell’attenzione, al centro del ring per combattere e, spesso, vincere.
Mura è stato pudico. Ha messo il suo raccontare davanti e prima della sua persona.
Brera è stato un inventore di parole.
Mura un custode di parole belle.
Brera ha coniato soprannomi onomatopeici da sostituire nell’immaginario collettivo i nomi stessi dei destinatari, Abatino per Gianni Rivera e Rombo di tuono per Gigi Riva, forse, i più noti.
Gianni Mura ne ha coniati di meno, ma non meno efficaci.
«Quando sei morto, ho scoperto che avevi vinto 34 corse in tutto. Mercks ne vinceva di più in una stagione. Ma era il modo, non il numero. Per questo Villeneuve è stato più amato di Schumacher […] Non morirai del tutto perché il ciclismo è lo sport più ricco di memoria e, per riflesso, di morti. Lo so già che da qualche parte, sulle strade del Tour, ci saranno sul gruppo due ombre taglienti, larghe, simmetriche. Le ali di Pantadattilo, ma qualche stupido dirà che sono nuvole».
Pantadattilo, l’aveva pensato per il più innamorante ciclista dell’era moderna, Marco Pantani.
«Averti letto e poi conosciuto è stata una fortuna e una ricchezza», scrisse l’allievo nel decimo anniversario della scomparsa del maestro. Vale anche per me. Averti letto caro Gianni Mura è stata una fortuna e una ricchezza.
La terra ti è già lieve, lo so. Lo sappiamo in tanti.
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