La vicenda Moro o meglio ancora “L’Affaire Moro”, come argutamente Leonardo Sciascia intitola un suo saggio pubblicato nei giorni immediatamente successivi al ritrovamento del corpo senza vita del presidente della Democrazia Cristiana, ha due punti fermi, sui quali tutti possiamo concordare: l’uccisione di Aldo Moro e l’assenza di giustizia. Due fatti che non possono essere più cambiati in alcun modo. Il primo perché nessuno potrà riportare in vita Moro, il secondo perché i protagonisti principali e in negativo della vicenda sono quasi tutti defunti.
C’è però un terzo aspetto, forse il più importante per una collettività, che può giungere a una soluzione positiva: la ricerca della verità. Un popolo, infatti, riesce a fare i conti con la propria storia solo e soltanto se si confronta con la verità degli accadimenti.
Ferdinando Imposimato, presidente onorario della Suprema Corte di Cassazione, nonché giudice istruttore del processo Moro, è uno di quegli uomini che continua a cercare la verità sul rapimento e l’omicidio dello statista pugliese. “I 55 giorni che hanno cambiato l’Italia” (Newton Compton Editori, 310 pp. € 7,90) è solo l’ultimo dei suoi libri dedicati all’argomento. Un libro che contiene elementi nuovi, prove documentali, testimonianze e riscontri che ricostruiscono in maniera puntuale e precisa ciò che successe tra il 16 marzo e il 9 maggio 1978 a Roma, nella capitale d’Italia.
La narrazione di Imposimato è fluida e non perde mai il ritmo neanche quando si giustappone ai documenti originali che sono indispensabili al lettore per non dimenticare che si tratta di storia e non di fiction, della peggiore storia d’Italia.
«Il meno implicato di tutti», come scriveva Pier Paolo Pasolini a proposito di Aldo Moro, viene rapito e ucciso e i vertici dello Stato nelle persone di Francesco Cossiga e Giulio Andreotti, all’epoca rispettivamente ministro dell’Interno e presidente del Consiglio dei Ministri, così come si evince dalla lettura di questo importante libro di Imposimato, si resero corresponsabili di quell’omicidio.
«La decisione di far uccidere Moro non è stata una decisione presa alla leggera, abbiamo avuto molte discussioni anche perché io non amo sacrificare le vite, questo non è nelle mie abitudini […] Ma Cossiga ha saputo reggere questa strategia e assieme abbiamo preso una decisione estremamente difficile, difficile soprattutto per lui. Ma la decisione finale è stata di Cossiga e, presumo, anche di Andreotti».
Chi parla è Steve Pieczenik, braccio destro di Henry Kissinger nella «terribile, quanto tardiva, confesione-requisitoria» sul caso Moro. E ancora «[…] Ciò che sospettavo, e fu il motivo per cui ripartii anzitempo, era in realtà che non gli interessava affatto tirare fuori Moro vivo. A quel punto seppi che la mia presenza a Roma aveva l’unico scopo di legittimare ciò che stavano facendo, che io ero funzionale ai loro obiettivi».
La corte d’Appello di Cagliari prima la Cassazione poi hanno sancito che il documento è autentico e che dunque «Gladio e i suoi vertici politici e militari sapevano che Moro stava per essere rapito e non fecero nulla per impedirlo». È utile ricordare inoltre che «In Italia la CIA creò Gladio, che ebbe come obiettivo la formazione di agenti pronti a compiere attentati di ogni genere, col pretesto di arginare l’improbabile invasione della penisola da parte dell’Armata Rossa […] inserita nel servizio segreto italiano e sciolta nel 2000».
Se si rileggono le dichiarazioni di Cossiga del 15 dicembre 1993 alla Commissione Stragi presieduta da Libero Gualtieri si apprende che «c’era la doppia sostanziale conferma di quanto aveva scritto Mino Pecorelli: da un lato ammetteva di aver saputo dove si trovava Moro e dall’altro non negava il mancato avallo a intervenire da parte di più alte autorità». Anche in questo caso è opportuno ricordare che Cossiga era ministro dell’Interno e Andreotti presidente del Consiglio dei Ministri e che dunque queste presunte più alte autorità, semmai fossero state davvero presenti e operative, non erano certamente italiane.
E se «la mattina del 16 marzo 1798, pochi minuti dopo il rapimento di Aldo Moro, andarono a visitare Gelli all’Excelsior» due personaggi misteriosi che avvertirono il capo della P2 dell’avvenuto rapimento, secondo la testimonianza di Nara Lazzerini, segretaria particolare di Gelli versione che trova riscontri in molti documenti agli atti della commissione parlamentare P2, vuol dire che anche Gelli era al corrente dei fatti anche perché molti uomini che occupavano ruoli di vertice nella catena di comando militare erano iscritti alla Loggia P2.
La sequenza degli orrori continua anche dopo il rapimento. Sia i militari italiani sia alcuni servizi segreti stranieri erano, infatti, a conoscenza, sin dal primo giorno, del luogo dove era prigioniero Aldo Moro.
«Oggi invece sappiamo, grazie alle concordanti e spontanee testimonianze di Giovanni Ladu e Oscar Puddu, che i reparti inglesi del SAS erano attestati proprio nell’appartamento sopra quello in cui era tenuto prigioniero Aldo Moro per piazzare le microspie e i registratori. Di questa presenza, tuttavia, non c’era alcuna traccia nelle carte del processo e nelle informative dell’allora ministro Cossiga» e ancora, «Ladu, infatti, aveva scritto un breve memoriale nel quale sosteneva di essere stato con altri militari – dal 24 aprile all’8 maggio 1978, vigilia dell’assassinio di Aldo Moro e del ritrovamento del suo cadavere nella Renault rossa parcheggiata a via Caetani – a Roma in via Montalcini, per sorvegliare l’appartamento-prigione in cui era tenuto il presidente della Democrazia Cristiana».
Versioni che coincidono con altre testimonianze raccolte in prima persona da Imposimato e dal giudice Priore e che inchiodano soprattutto Francesco Cossiga alle sue gravi responsabilità. Cossiga che mente, sapendo di mentire, quando il 28 novembre 1993 rilascia un’intervista all’emittente televisiva tedesca in cui parla per la prima volta dei piani Victor e Mike. «Sapevo che Moro sarebbe morto: era questa la mia tragedia personale […] La mia unica speranza era quella di trovare la prigione». Come invece si evince dall’evidenza dei fatti Cossiga sapeva esattamente dove era tenuto prigioniero Aldo Moro.
Lo aveva scritto molti anni prima Mino Pecorelli che nel gennaio 1979, su “OP”, titola così un suo memorabile articolo, “Vergogna buffoni”:«La violenza politica ha raggiunto il suo apice con l’uccisione di Aldo Moro […] Moro doveva uscire vivo dal covo (al centro di Roma, presso un comitato, presso un santuario). I carabinieri avrebbero dovuto riscontrare che Moro era vivo e lasciare andare via la macchina rossa. Poi qualcuno avrebbe giocato al rialzo, una cifra inaccettabile perché si voleva, comunque, l’anticomunista Moro morto».
C’era anche qualche servitore dello Stato che lavorava per salvare Aldo Moro e per la verità, come per esempio il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, ma non è un caso che lui, così come il giornalista Pecorelli non sono morti di morte naturale.
La storia che Imposimato ci aiuta a comprendere meglio è la pagina più brutta della storia repubblicana italiana. Una storia che racconta molto del degrado morale, etico e politico in cui versa oggi il nostro Paese e che certo deve essere ancora studiata per cercare la verità che sola può aiutare il popolo italiano a comprendere meglio e di più se stesso e i suoi errori.
«L’aspetto più grave dell’incredibile vicenda è che i vertici dello Stato si guardarono bene dal trasmettere l’informazione dell’esatta localizzazione della prigione al procuratore della Repubblica, l’unico ad avere il potere e il dovere di gestire il sequestro e decidere, secondo le regole del codice di procedura penale, l’intervento della polizia giudiziaria. Del tutto illegittima fu dunque l’usurpazione dei poteri attribuiti attribuiti dalla Costituzione alla magistratura».
E le conclusioni a cui giunge Ferdinando Imposimato impongono alle forze politiche di oggi, a tutte le forze politiche, di continuare a cercare la verità per la memoria di Aldo Moro e degli uomini della sua scorta, Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Francesco Zizzi, Giulio Rivera e Raffaele Iozzino, ma anche per difendere i valori e i diritti del popolo italiano scritti con il sangue dei partigiani nella nostra Costituzione.