Tutti invocano ormai da tempo, soprattutto in Calabria, il cambiamento e l’apertura all’innovazione, la rivoluzione culturale: dalla politica al mondo delle imprese, dall’associazionismo alla scuola è un continuo parlare di cambiamento e innovazione, ma di questi due elementi, nel quotidiano, si vede ben poco, a parte qualche cellulare, una stampante 3D e un docente che usa una LIM (laddove funzionano…). Forse il cambiamento non è ancora realmente arrivato e non si è realizzato perché non abbiamo mai voluto concretamente comprendere cosa esso sia e cosa implichi. Sarà forse per questo che non andiamo “avanti” a livello di Paese?
Magari è difficile da accettare, ma il vero cambiamento passa obbligatoriamente attraverso la modifica radicale delle abitudini e dei nostri processi mentali più elementari. Fino a quando penseremo che il cambiamento è un vento capace di travolgerci e stravolgere la realtà, senza bisogno del nostro intervento diretto, nulla verrà realmente modificato, mentre il vociare lamentoso aumenterà e la condizione attuale degenererà sempre più. Purtroppo, le parole non hanno un “peso specifico” e, dunque, tutti possono dire tutto, per poi razzolare in tutt’altro modo.
Se provassimo a fare un elenco delle abitudini da cambiare, forse non basterebbero le pagine di Wikipedia per enumerarle tutte. Ma, già di fatto partendo dal riconoscerne e modificarne quattro o cinque, che incidono fortemente sul nostro modo di agire quotidiano, guidati come siamo dai media, dalla politica e da una strisciante subcultura della cooptazione, i risultati potrebbero essere più che incoraggianti.
La prima “bad habit” è quella della cultura dell’emergenza, che oltre ad imperare in ogni ufficio e ambiente di lavoro (con le dovute eccezioni), si sta via via impadronendo dell’intero Paese, portandoci ad essere degli estremisti nel bene e nel male: un evento negativo è automaticamente una tragedia, un evento positivo è un miracolo, presi dalla fretta e dal dover sintetizzare e vivere tutto, siamo incapaci di indagare e comprendere quello che accade realmente. Ci fidiamo del “mezzo” e del “messaggio”, senza volere approfondire, senza chiederci più il perché delle cose, come farebbe un bambino di 4 anni, e in questo modo tutto si deteriora e diventa bianco o nero, facendoci dimenticare che i colori sono milioni e così come ogni storia ha un proprio valore e non per forza c’è sempre un’interazione e un collegamento tra un evento e l’altro. In questo modo polarizzati su determinati posizioni, dimentichiamo che la scintilla della vita a volte è anche scommettere sul nuovo, senza voler per forza rottamare il vecchio; è comprendere ciò che accade e creare una propria personale opinione.
L’altra cattiva abitudine che ci sta conquistando un po’ tutti, grillini o meno, è quella di pensare che “la Rete ci salverà”. La Rete è fatta di persone reali, che per fare qualcosa di altrettanto reale, certamente possono entrare in contatto online, ma poi devono incontrarsi, parlarsi, conoscersi, vedere come ci si integra e come si lavora assieme. Un gruppo Facebook, una petizione, un evento di social bombing, in una democrazia rappresentativa, come quella in cui viviamo, hanno ben poco effetto, se poi non c’è qualcuno che si fa carico di quel sentimento e lo porta nelle sedi opportune. La Rete è sì uno strumento di pressione, di diffusione, ma il cambiamento ancora una volta lo realizziamo noi nel quotidiano, lontani dalla tastiera del PC e col telefonino in tasca, parlando e interagendo con la nostra realtà. Plasmando a mani nude quello che vogliamo realizzare. In Rete i paladini della giustizia non mancano, ma troppo spesso poi si dimostrano “agnellini” o “lupi travestiti da agnelli”, poiché non se ne conoscono le storie, se ne ignora la statura morale, non si è avuto il tempo, il modo e la volontà di conoscersi, per “misurarsi” e comprendersi. Così, spesso si creano falsi miti, ci si fida delle persone sbagliate, si dà potere “contrattuale” a chi lo userà per perseguire le sue idee e solo le sue, perché il gruppo, il processo “bottom-up” nella realtà non si è mai consumato, e di conseguenza ci si sente liberi, liberi interpreti della volontà comune… Che si ignora…
Altra abitudine, condivisa tra siciliani, calabresi e campani, è quella di pensare che la mafia e il malaffare sono ovunque, che è impossibile avere una vita normale, quindi tanto vale “conviverci”; facendo di fatto il primo passo verso l’accettazione della situazione e la connivenza, facendo diventare di fatto la zona bianca sempre più ridotta, appannaggio di una zona grigia, magari più chiara, ma imperante, spesso non per “imposizione” del sistema mafioso, ma per un timore intrinseco che ci fa essere genuflessi a prescindere, perché le cose volenti o nolenti vanno così.
Fermandosi a questi tre abiti mentali, è facile comprendere che modificandoli, potremmo assaporare il vero gusto del cambiamento, scoprendo chi racconta una storia vera e chi è fiction; chi può rappresentarci e chi invece no; chi è onesto e chi è mafioso; chi ha voglia realmente di cambiare perché quotidianamente ha una vita diversa e chi invece scrive e parla per poi condurre una vita silenziosa e rispettosa della condizione “comune”. Solo staccandoci da determinate convinzioni saremo pronti a cogliere l’innovazione e le potenzialità di una proposta ardita fatta da un giovane con gli occhi che brillano di entusiasmo, solo così potremo vedere giorno dopo giorno, pian piano, cambiare la nostra terra assieme a noi.
Il cambiamento è una condizione comune, che non può però prescindere da ciascuno di noi e solo cambiando noi stessi, partendo dalle abitudini, potremo vedere concretizzarsi quello che sogniamo, quel Mondo che vorremmo lasciare ai nostri figli, coscienti di averne costruito di fatto un pezzo: le fondamenta culturali.