di Oscar Buonamano
Siamo sul tetto d’Europa, L’Italia del calcio è campione d’Europa.
Un successo cristallino, meritato. Vincere la finale a Wembley, la Scala del calcio internazionale, contro l’Inghilterra è stato bello. Ed è stato ancor più bello per come si era messa la partita.
Al secondo minuto del primo tempo e al primo tiro in porta l’Inghilterra è passata in vantaggio davanti al proprio pubblico. Un colpo terribile per chiunque, ma non per i ragazzi di Roberto Mancini che hanno cominciato a giocare così come hanno imparato in questi ultimi tre anni. L’Inghilterra ha giocato dietro la linea della palla per tutta la partita, chiusa a riccio come nemmeno il Padova di Nereo Rocco. Un catenaccio d’altri tempi, senza vergogna, con gli azzurri a cercare la rete del pareggio senza ansia, senza fretta, ragionando. Hanno avuto pazienza.
Il gol del pareggio lo ha siglato di Leonardo Bonucci che con il capitano, Giorgio Chiellini, ha ricordato a tutti cosa significa essere difensori di scuola italiana.
Si arriva ai rigori e Gigio Donnarumma, parando due rigori, conquista sul campo il titolo di miglior calciatore del torneo.
È stato un trionfo bello in cui riconoscersi e di cui si parlerà a lungo per almeno tre ragioni.
La prima è che Roberto Mancini ha costruito una squadra puntando sui giovani, anche su quelli che non erano titolari nelle proprie squadre. Zaniolo docet.
La seconda, non meno importante della prima è che ha saputo costruire un gruppo di lavoro coeso in campo e fuori dal campo. Ha costruito una squadra, l’impresa più difficile in qualunque organizzazione lavorativa.
La terza è che ha puntato tutto sulla qualità dei calciatori andando controcorrente con il pensiero dominante che vuole le squadre di calcio contemporanee costruite soprattutto sulla prestanza fisica e sulla corsa. In questo certamente ha giocato un ruolo determinante il suo essere stato uno dei più calciatori italiani più bravi di sempre. Un calciatore sublime che ha iniziato la sua carriera a sedici anni e che ha saputo portare alla vittoria la squadra che lo aveva scelto e che lui scelse, la Sampdoria.
Con la Sampdoria e con Luca Vialli al suo fianco in campo avevano sfiorato la vittoria della Coppa dei Campioni proprio a Wembley, il tempo ha restituito, ad entrambi, ciò che un perfido tiro di Ronald Koeman, nei tempi supplementari, gli tolse ventinove anni fa.
Ma torniamo a Londra e a ieri sera.
Mancini ha utilizzato, ancora una volta, tutti i cambi a disposizione. Fuori Verratti, Barella, Immobile, Insigne, Chiesa, Emerson, e dentro Cristante, Berardi, Bernardeschi, Belotti, Locatelli e Florenzi. Fuori i calciatori più tecnici, quelli che altri e meno capaci allenatori chiamerebbero titolarissimi e dentro le seconde linee. Tranne il terzo portiere, Meret (c’è da scommettere che Mancini lo farà giocare alla prossima partita della nazionale) hanno giocato tutti: quando le parole hanno un senso. Aveva detto, sono tutti titolari e così è stato fino alla fine, fino alla vittoria.
Bravi, bravissimi, tutti, ma bravo soprattutto Roberto Mancini.
Ieri era l’11 luglio, una data ormai leggendaria per la nazionale italiana. Nel 1982 siamo diventati Campioni del Mondo a Madrid e ieri, 39 anni dopo, campioni d’Europa a Londra.
Siamo i più forti d’Europa. Lo siamo nel calcio, potremmo essere anche in tante altre cose.
La nazionale di calcio che ha saputo rialzarsi dopo l’eliminazione al mondiale russo del 2018 ha indicato la strada. Lavoro, sacrificio e gioventù.
Dobbiamo crederci e lavorare. E dare più spazio ai giovani. Oggi, non domani.