“Ho imparato che l’amore, non il tempo guarisce le ferite”. Versi della poesia di Paulo Coelho, che cito per ricordare un grande ragazzo, un grande Uomo, Lillo Zucchetto.
L’amore lenisce le ferite e come posso io far rimarginare la mia ferita, se chi avrebbe dovuto elargire amore, dare sicurezza, invero ha prodotto ulteriore ferite? Per amore intendo “verità” e non verità soggiogata, verità negata, verità nascosta da parte di uno Stato che non ha fatto nulla per difendere i propri figli.
Alcuni che rappresentavano lo Stato erano impegnati a mantenere rapporti sodali coi mafiosi e ordunque non avevano né tempo né voglia di difenderli. La mia ferita sanguina ancora oggi, anche se sono trascorsi 31 anni dalla violenta morte dell’agente di polizia Calogero “Lillo” Zucchetto.
Dal quel giorno, 14 novembre 1982 non ho assolto e non assolvo chi esercitando il potere, ha permesso il sistematico eccidio di poliziotti, carabinieri, magistrati e onesti cittadini. E quando urlo con tutte le mie forze che lo Stato ha la responsabilità oggettiva di tutti i martiri di mafia, compreso le stragi del 92/93, lo dico col cuore gonfio d’amarezza.
Nel mese di settembre 1982, tre uomini credettero che l’azione di contrasto alla mafia palermitana era linfa per la legalità; il terzetto era convinto che l’affermazione della Legge fosse il baluardo del vivere civile e quindi si buttarono a capofitto nelle indagini per catturare il capo famiglia di Villabate, Salvatore Montalto.
Da settembre a novembre non smisero di osservare una villetta, dove il latitante aveva trovato rifugio: Lillo Zucchetto ne faceva parte. Le giornate silenziose scivolavano via e quel nascondiglio naturale, fatto da una macchia mediterranea sul costone della montagna che sovrasta Palermo, rappresentava un avamposto dello Stato: un avamposto fatto di ripetuti silenzi e da dove il terzetto consumava frugali pasti.
Lillo era “l’esperto” nel senso che conosceva bene i mafiosi e fu lui che riconobbe, attraverso un potente binocolo, il Montalto. Io, invece nel giorni a seguire riconobbi Michele Greco.
E mentre noi tre annotavamo “entrate ed uscite” da quella villetta, altri miserabili individui si recavano alla Favarella poco distante dalla villetta, di proprietà dei Greco, per incontrare Michele il “Papa” e Salvatore “il Senatore”. I visitors, come accertammo poi, non erano persone qualunque ma eminenti politici. La decisione di uccidere Lillo generò allorquando fu incrociato nell’agro di Ciaculli, da Scarpuzzedda, Mariolino e Giovanni Fici.
Lillo era insieme a Cassarà mentre a bordo del vespone percorreva l’agro di Ciaculli. Pino Greco “scarpuzzedda” e Mario Prestifilippo, conoscevano molto bene Lillo. Ciaculli era il regno dei Greco, considerato un agro impenetrabile, un sito off-limitis agli sbirri. Una rete di vedette monitorava il territorio e una serie di attentati incendiari stabiliva chi poteva risiedere o essere cacciato via: una sorta di zona franca. Ed io e Lillo profanando il “sancta sanctorum” di Cosa nostra, commettemmo un affronto gravissimo.
Lillo, come noto per averlo io volte pubblicato, poteva salvarsi, ma non fuggì. Volle partecipare alla cattura di Montalto per dimostrare di essere un poliziotto: per dimostrare con orgoglio che lo Stato c’era. Quello Stato che frettolosamente lo seppellì senza la partecipazione dei palermitani. Un ragazzo, un grande Siciliano di soli 26 anni, trucidato immotivatamente. Io, Pippo Giordano sarei dovuto morire a suo posto: Scarpuzzedda non sapeva che ero stato io a profanare il regno dei Greco: un regno che da ragazzo avevo percorso in lungo e largo.
Mi spiace Lillo, ancora oggi ne soffro e non potrò mai dimenticare il tuo martirio!