Il mondo è costituito da milioni di storie la cui somma algebrica partorisce l’algoritmo della quotidianità di ognuno di noi. Tuttavia, come nella strepitosa corsa naturale della vita, tutte le vicissitudini umane sono sottoposte alla regola del destino differente, ovvero a quello che sarebbe potuto essere e non è stato. Alcune di esse assaporano il privilegio di essere raccontate per poi mutare in un faro mediatico per tante persone in esse finiscono per rispecchiarsi; altre viceversa rimangono imprigionate nei recinti dell’anonimato pur essendo meritevoli di essere rese pubbliche. Dalla Sardegna giungono due storie che vale la pena raccontarle.
La prima riguarda quattro lavoratrici di un villaggio turistico di Tortolì che hanno avuto il coraggio di rendere pubblica la loro condizione di sfruttamento salariale: tre euro la loro retribuzione oraria.
Grazie alla loro denuncia in Sardegna tutti siamo venuti a conoscenza di questa indecorosa vicenda a cui si sta tentando di porre rimedio. Ma quante sono le persone che non raccontano cosa realmente accade dentro i luoghi di lavoro in cui il conflitto capitale-lavoro non sembra per niente essere stato assorbito dall’economia della conoscenza? A quanti lavoratori vengono oggi negati basilari diritti conquistati al costo di durissime lotte e che i processi di precarizzazione dell’individuo hanno spazzato via? Quanto silenzio regna ancora sovrano intorno a queste vicende! La seconda storia racconta di una ragazza che ha chiesto di poter sostenere l’esame di maturità in sardo, la sua lingua materna: l’idioma del popolo sardo. Tale diritto le è stato negato in quanto il presidente della commissione non conosceva questa antica lingua.
Da questa vicenda è scaturito un interessante quanto infinito dibattito sull’utilizzo della istituzionale della lingua sarda. Nel frattempo altri ragazzi hanno seguito l’esempio dell’eroina di Tortolì. Tutti questi passaggi esistenziali aprono uno squarcio sugli scenari politici presenti e futuri dell’Isola. Suggeriscono in maniera definitiva che la Sardegna è viva ed è entrata in una fase costituente che a molti osservatori sta sfuggendo. Non a caso negli ultimi anni si è lentamente sedimentata l’idea che per uscire dall’attuale crisi l’unica via percorribile sia quella di un fattivo autogoverno del popolo sardo da attuare attraverso reali potevi di sovranità in materia di fiscalità, trasporti, energia e cultura. La spinta all’autodeterminazine sta diventanto una cultura politica egemonica. Specie nell’area della sinistra che non trova rappresentanza negli attuali partiti politici.
Le elezioni regionali sono ormai alle porte, mancano otto mesi. E mai come in questa tornata i temi del lavoro e dell’identità costituiranno gli architravi su cui dovranno confrontarsi i vari candidati alla presidenza della Regione.
I dati parlano chiaro: il 17% delle persone in Sardegna ha perso il lavoro nel 2013; il 40% dei giovani è disoccupato. Secondo uno studio del CNA la Sardegna sarebbe fanalino di coda in Italia per qualità della vita, benessere, distribuzione della ricchezza. Secondo la ricerca infatti il 75% delle regioni d’Europa è più competitiva dell’Isola. Il 98% delle regioni europee ha più laureati della Sardegna, che ha inoltre una capacità innovativa inferiore di oltre il 90% rispetto alle altre regioni del vecchio continente. L’Autonomia è entrata da tempo in fase di agonia: il suo impianto normativo non regge più di fronte a quelle che sono le esigenze di governance che i processi di globalizzazione e internazionalizzazione economica impongono alle istituzioni rappresentative post ’89.
Lo Statuto di Autonomia è uno strumento del passato e per questo va superato dotando le istituzioni isolane di reali poteri di sovranità ampliando così il loro perimetro di intervento. Negli ultimi anni sono nati decine di comitati spontanei sui temi più svariati.
La società civile non è stata a guardare e, laddove la politica “classiconovecentesca” era assente, si è spesso erta a difesa dell’ambiente al fine di evitare pericolose speculazioni: pale eoliche in primis. I partiti della Seconda Repubblica, al posto di aprire un dialogo con le parti più dinamiche della società civile, hanno invece approvato una nuova legge elettorale che prevede uno sbarramento del 10% per le coalizioni, del 5% per le forze politiche che si presenteranno da sole e del 3% per i partiti che concorreranno all’interno di una coalizione.
Il messaggio è chiaro: “il potere logora chi non ce l’ha” e noi ce lo vogliamo tenere tutto senza dare spazio a chi oggi cerca nuove forme di rappresentanza e un nuovo rapporto con le istituzioni. Si è optato per un meccanismo di scelta della rappresentanza liberticida con la classica scusa di una maggiore governabilità. Movimenti, partiti identitari, comitati e molti cittadini che si sono mobilitati in questi ultimi anni rischiano di essere esclusi dal massimo organo di rappresentanza del popolo sardo. Il pericolo è che le prossime elezioni regionali siano state congegnate per dare spazio solo al ceto politco grazie ad un dispositivo elettorale escludente.
Eccola quindi una terza storia che merita di essere raccontata e di cui racconteremo le conseguenze. La Sardegna non risorgerà grazie alla furbizia politichese ereditata dalla Prima Repubblica, ma grazie al coraggio e alla fierezza di chi denuncia lo sfruttamento e di chi chiede che sia rispettato il diritto di poter parlare lingua della terra in cui vive.