I giovani italiani sarebbero bamboccioni, choosy e sfigati ma gli adulti non se la passano meglio: semplicemente “inoccupabili” per il ministro del Lavoro Giovannini. Senz’altro frettoloso nel seguire il filone tracciato da Padoa Schioppa e proseguito dalla Fornero e da Martone, all’indomani di un’indagine Ocse condotta su 24 Paesi. Ma l’indagine ha impietosamente evidenziato le carenze degli italiani in tema di competenze linguistiche e matematiche, spesso decisive per affrontare l’attuale mercato del lavoro. Così, se la definizione di Giovannini è eccessivamente tranciante, deve comunque indurre ad alcune riflessioni.
In primo luogo non sorprende che il gap di competenze, che pure interessa tutte le fasce d’età, sia particolarmente accentuato negli over 55. Nel nostro Paese l’istruzione e la formazione continuano ad essere concentrate nella fase iniziale della vita della persona e pochissima attenzione viene data alla formazione e all’aggiornamento continui. Il lifelong learning è, nei fatti, rimasto un mero obiettivo ma sarebbe quanto mai necessario, dal momento che nessuno di noi può immaginare di rimanere oggi occupato contando solo sul bagaglio di competenze acquisito all’inizio della carriera.
Il raffronto con gli altri Paesi è impietoso: in Italia solo il 5,7% della popolazione è coinvolto in programmi di formazione permanente, contro una media del 9% in Europa e punte superiori al 15% in tutti i Paesi nordici. Se poi si analizzano solo i dati degli adulti over 55, scopriamo che un misero 2,4% partecipa a piani formativi e che l’Italia è ultima in Europa.
È un problema di risorse finanziarie? No, Fondo Sociale Europeo e Fondi Interprofessionali garantiscono adeguatamente l’attuazione degli interventi.
Il problema è che siamo carenti di cultura della valutazione. Nessuno valuta l’efficacia degli interventi posti in essere, non abbiamo mai avviato vere azioni di sistema, non ci siamo attrezzati per tempo per capire cosa, e in che misura, abbia funzionato delle riforme già adottate e cosa invece si sia rivelato del tutto inefficace. Così, tristemente, nessuno valuta con la necessaria sistematicità se il sistema educativo abbia trasferito le necessarie competenze di base o se gli interventi formativi abbiano incrementato la probabilità di trovare lavoro, di continuare a svolgerlo efficacemente, di fare carriera.
Da noi la classe politica è molto interessata all’avvio di un progetto, di una riforma, di una misura di politica del lavoro.
Ma segue poco, pochissimo la sua attuazione pratica. Ed è un errore madornale: la “gestione” di un intervento è fondamentale quanto la sua “programmazione”, se non di più. Come possiamo evitare di apprendere, in modo sistematico e rigoroso, dalle riforme passate al fine di preparare meglio quelle future? Altrove, in Europa, sono molto attenti alla valutazione d’impatto e i risultati si vedono.
D’altra parte questo è il Paese da tempo dominato da una “spending review” senza cognizione di causa. Contano solo i tagli di bilancio – peraltro attuati a livello locale e non centrale – come se questi fossero l’unico risultato desiderabile di un’attività di revisione della spesa e come se da tali tagli discendessero, necessariamente, dei risparmi nel lungo periodo. Non sono scontate né l’una, né l’altra cosa. La spending review dovrebbe aiutarci a individuare il modo più saggio di allocare le risorse, partendo dal rapporto costi/benefici dei programmi già finanziati e realizzati e quindi da una rigorosa attività di valutazione. La sola che ci può consentire di spendere meglio, piuttosto che meno.
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