C’è una sfida da affrontare per sconfiggere la ‘ndrangheta ed ogni tipo di organizzazione criminale, in ogni “luogo in cui si plasma l’uomo”, per usare una felice espressione cara a Giovanni Paolo II, ed è innanzitutto culturale. Con questo termine intendo, oltre che una adeguata conoscenza circa lo stesso fenomeno e le sue drammatiche conseguenze sul presente e sul futuro della nostra terra di Calabria e dell’Italia intera, anche e direi soprattutto, formazione delle coscienze di tutti cittadini ad iniziare da coloro che intendono avventurarsi in politica. Sono fermamente persuaso che il primo reale nodo da sciogliere è innanzitutto il profondo e consolidato legame che intercorre tra le mafie e la politica.
La «politicità» della mafie
La storia delle organizzazioni mafiose nel nostro Paese, anche quella più recente ci ha insegnato che se da un lato può esserci – e spesso accade – una politica senza mafia, non può assolutamente darsi una mafia senza la politica. Nel provvedimento con il quale è stata disposta la confisca dei beni all’imprenditore siciliano Vito Nicastri per un valore di circa un miliardo e mezzo di euro, si parla appunto di “rapporti con la pubblica amministrazione”, ove da questo punto di vista – per usare le parole stesse degli organi inquirenti – “lo scenario è sconfortante”. Il rapporto tra politica e mafia è certamente uno degli aspetti più inquietanti e controversi del fenomeno mafioso e delle istituzioni del nostro Paese.
Nonostante l’abbondante produzione di materiali sull’argomento, sotto forma di libri e servizi giornalistici di denuncia, di documenti politici, di relazioni di organi ufficiali, non possiamo dire che finora il tema sia stato adeguatamente affrontato in tutte le sue implicazioni. Va subito messo in chiaro che le mafie non hanno una ideologia politica, semmai un’atavica cultura del potere che Enzo Ciconte definisce “politicità”. Da sempre queste organizzazioni criminali nei rapporti con le forze politiche ed istituzionali hanno mostrato una grande capacità di elasticità e di adattamento anche al mutare del quadro politico e al succedersi dei detentori del potere.
Quanto mai significativo al riguardo, è il comportamento dei mafiosi nelle fasi di transizione, quando varie forze politiche sono in corsa per il potere, con la loro pronta disponibilità a mettere in gioco il pacchetto di voti al miglior offerente. La penetrazione della ‘ndrangheta nei partiti e nelle coalizioni del Nord Italia di questi ultimi dieci anni ci dice che questo sistema, questa “politicità”, è vincente. In questo senso, ha perfettamente ragione il Giudice Nicola Gratteri quando afferma “che la mafia non sta mai all’opposizione”.
Rocco Sciarrone, in una sua interessante relazione durante il Convegno organizzato dalle Caritas calabresi nel gennaio 2007, dal titolo quanto mai emblematico: Una tela senza ragno: i volti mutevoli delle mafie, afferma che «peculiare delle organizzazioni mafiose è la loro spiccata capacità di azione politica, intesa non solo come potere, esercizio e/o detenzione di potere, bensì come ricerca del potere, azione finalizzata al potere».
È opportuno, a tal proposito, ribadire con estrema chiarezza ciò che diversi studiosi del fenomeno precisano: “quella mafiosa non è violenza di opposizione o di scontro con lo Stato, non è violenza antistatuale antisistema ma è una violenza interstatuale, non è esterna alla società, né è esercitata solo con le armi in mano, è dentro, interna, fa parte integrante della società. È violenza strumentale, programmatica, strategica, non permanente e quotidiana. I mafiosi non solo in lotta contro qualcuno o qualcosa (…) Insomma, la violenza mafiosa ha come nemico non lo Stato ma i singoli suoi rappresentanti” (E. Ciconte). Eccezion fatta, ovviamente, per Totò Riina ed i Corleonesi da lui capeggiati con la loro idea di “mafia terroristica”, in lotta con lo Stato per il totale controllo del territorio attraverso il barbaro uso della violenza per imporre la legge del più forte.
Davvero singolare come Carmine Schiavone, uno degli esponenti di spicco del clan dei Casalesi, attraverso le sue dichiarazioni rese agli inquirenti spieghi bene questa sorta di strategia mafiosa: «Noi volevamo vivere con lo Stato. Se qualcuno dello Stato ci faceva opposizione, ne cercavamo un altro disposto a favorirci». Tali dichiarazioni sono oltremodo importanti per farci comprendere che al di là delle differenze che intercorrono tra le varie mafie, ciò che le accomuna e che gli permette di perdurare attraverso i secoli con un sempre maggiore radicamento nel mondo globalizzato odierno, è appunto questa strategia invasiva e pervasiva fatta di intrecci e di relazioni che gli consente di espandersi al di là dei capi e dei clan.
Una sorta di “tela senza ragno appunto”. La “politicità” mafiosa, in particolare quella posta in essere dalla ‘ndrangheta, ha prodotto un giro d’affari pari quasi a quello del PIL nazionale. A fronte di questo esagerato arricchimento di quei pochi, sta il graduale impoverimento dei molti che vivono nel territorio calabrese e meridionale in genere. Oltre che il degrado ambientale, in queste terre si sperimentano sempre di più minori opportunità economiche, sociali e culturali.
Nel lontano 1948, l’economista statunitense J. Stuart Mill, in suo famoso saggio titolato “Principi dell’economia politica”, riconobbe che “la criminalità organizzata non dà luogo a produzione perché esse non crea ma distrugge la ricchezza”. Se da un lato questo è assolutamente vero, dobbiamo riconoscere – con Ciconte – che nell’economia del mercato globalizzato non esiste un confine sicuro tra economia legale ed economia illegale.
Lo studioso afferma, inoltre, che «l’economia legale non scaccia automaticamente quella illegale e criminale, tra le due non c’è incompatibilità, l’una con l’altra, anzi la convivenza sembra essere la caratteristica del loro rapporto». Basti qui considerare che finora il mercato ha avuto – e continua purtroppo ad avere – come principio fondamentale del suo agire la deregulation ideata negli anni settanta, una delle concause della crisi economica di portata mondiale di cui ancora oggi ne avvertiamo le conseguenze.
Il risultato di questo processo di deregolamentazione, tra l’altro, ha comportato che le grandi multinazionali non solo abbiano il controllo reale del mercato ma, il che ha dell’assurdo, controllino anche gli Stati che invece dovrebbero controllare entrambi. Dunque, sia i beni legali che quelli legali si muovono all’interno di questo mercato globale e “sono pagati e scambiati con la stessa moneta”. I settori dell’economia dove vengono riciclati gli ingenti capitali prodotti illegalmente dalle società criminali, principalmente per quanto riguarda la ‘ndrangheta il narcotraffico, sono innanzitutto il settore edilizio; poi i supermercati; il vasto settore del tempo libero, discoteche, ed altro; il ciclo dei rifiuti; le aziende agricole; la distribuzione di oli e benzine e come visto sopra con la confisca a Vito Nicastri, ultimante anche il settore delle energie alternative.
Per un recupero della politica come «alta forma di carità»
Da questa pur breve e certamente non esaustiva analisi del rapporto tra mafia e politica, spero si comprenda come sia assolutamente indispensabile una autentica formazione delle coscienze di tutti i cittadini, in particolare, lo ribadisco, di coloro che intendono avventurasi in politica. Non è assolutamente accettabile l’improvvisazione in questo delicato ambito, tanto meno le investiture dall’alto. In occasione della visita in Sardegna nel marzo del 2009, Benedetto XVI si è rivolto ai politici raccomandando «competenza e rigore morale», auspicando una nuova generazione di politici.
Purtroppo, l’antico valore della politica, con il passare degli anni si è perso e consumato del tutto, soprattutto dopo l’avvento dell’economia di mercato e dello Stato capitalistico-borghese, avvolto nell’involucro protettivo di una falsa “democrazia” puramente formale e rappresentativa (ormai in fase di netta decadenza), con conseguenze ancora più drammatiche in Italia dopo l’entrata in vigore del porcellum.
Oggi, è più che mai necessario riscoprire il valore originario della politica, presente in nell’esperienza dell’antica democrazia ateniese, nella vicenda dei Comuni italiani del 1200. Occorre rivalutare e rilanciare l’utopia concreata dell’autogestione popolare e dell’autogoverno della comunità dei cittadini, guardando con interesse e con piacere alla viva esperienza dei municipi autonomi come, ad esempio, Porto Alegre in Brasile, e sperimentando nella realtà delle piccole comunità locali l’idea della politica come rifiuto e critica radicale di ogni tipo di potere, che non sia quello finalizzato al servizio del bene comune quindi, come partecipazione diretta di aree sempre più ampie della popolazione ai canali decisionali.
“Tale utopia della democrazia diretta a livello locale, è oggi non solo possibile, ma altresì necessaria, di fronte ad un nuovo, prepotente fenomeno di carattere autoritario ed antidemocratico, determinato dall’avvento di un “nuovo ordine imperiale” che ha segnato la crisi e il declino della sovranità democratica, seppure solo formale, degli Stati nazionali, soppiantati dallo strapotere, illimitato e smisurato, di organismi economici sovranazionali che dirigono e controllano le dinamiche dell’economia di mercato e dei suoi assetti più propriamente bancari e finanziari, che si sono rapidamente affermati su scala mondiale e delle economie illegali innescate dalle mafie frammiste ad esse”.
Eppure basta una semplice comprensione dello stesso etimo greco del termine, “Polis”, per rendersi subito conto che esso esprime sin dal suo antico ed originario significato, “Città”, appunto, il senso della più nobile e sublime tra le attività proprie dell’uomo: la suprema manifestazione delle potenzialità e delle prerogative attitudinali dell’essere umano in quanto essere sociale. Tale somma capacità dell’uomo si estrinseca nella politica come attuazione dell’autogoverno della Città.
Papa Francesco, sull’Osservatore Romano del 3 aprile di quest’anno, annota: «ognuno di noi deve recuperare sempre più concretamente la propria identità personale come cittadino, ma orientato al bene comune. Etimologicamente, cittadino viene dal latino citatorium. Il cittadino è il convocato, il chiamato al bene comune, convocato perché si associ in vista del bene comune. Cittadino non è il soggetto preso individualmente, come lo presentavano i liberali classici, né un gruppo di persone indistinte, ciò che in termini filosofici si definisce «l’unità di accumulazione». Si tratta di persone convocate a creare un’unione che tende al bene comune, in certo modo ordinata; ciò che viene definito “l’unità di ordine”.
Il cittadino entra in un ordinamento armonico, talora disarmonico a causa delle crisi e dei conflitti, ma comunque un ordinamento, finalizzato al bene comune. Per formare comunità ciascuno ha un munus, un ufficio, un compito, un obbligo, un darsi, un impegnarsi, un dedicarsi agli altriۛ». Ecco spiegato bene il senso di quell’espressione di Paolo VI che definiva la stessa azione politica come un “alta forma di carità”. Giuseppe Lazzati, in un volumetto intitolato “La Carità” annotava: «Per un cristiano che abbia capito fino in fondo cosa significa essere tale, l’impegno che chiamo con un’accezione molto lata politico, è l’espressione più profonda della Carità.
Perché è certo un segno di amore dare il pane a chi non l’ha, se mi capita di incontrarlo, ma è ancora più profondo l’impegno di organizzare le cose in modo che il fratello non manchi del pane, della casa, del vestito, del lavoro». Queste ultime considerazioni ci aiutano a comprendere che l’appartenenza alle organizzazioni criminali è l’esatto contrario dell’impegno per il bene comune anzi, possiamo a buon diritto affermare che essa rappresenti la massima espressione dell’egoismo, dell’odio e della sopraffazione dell’uomo sull’uomo, totalmente inconciliabile con l’essere cristiano, perché l’azione mafiosa è, essenzialmente, antieucaristica.
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