Quando il giudice monocratico del tribunale di Sulmona Ciro Marsella ha ascoltato oggi le loro testimonianze, non ha potuto far altro che spedire le carte in procura per verificare eventuali profili penali a carico di almeno cinque agenti di polizia penitenziaria.
Caschi blu dai metodi sbrigativi appartenenti al Gom (gruppo operativo mobile), chiamati in gergo dai detenuti “i monaci”, per quelle vesti ampie sotto le quali nascondevano mazze e catene per picchiare i reclusi.
Scene agghiaccianti quelle raccontate in due ore e mezza di interrogatorio protetto da due collaboratori di giustizia, scene che nel 2007 nel supercarcere di Sulmona sarebbero state molto frequenti.
Secondo il racconto lucido e ricco di particolari dei pentiti, infatti, “i monaci” si presentavano all’improvviso nelle celle del reparto giallo, quello destinato appunto ai collaboratori di giustizia, posizionavano assi di legno davanti alle celle per impedire la visuale e poi entravano e picchiavano i detenuti. Senza pietà e senza motivo.
I due pentiti sentiti oggi, uno dei quali parte offesa proprio in un processo per violenza e lesioni, non hanno omesso particolari, nomi e cognomi, date e occasioni. “Avevano denunciato tutto alla magistratura – spiega l’avvocato di uno dei due, Cinzia Simonetti – per capire se per quei raid punitivi ci fossero mandanti, perché quando si è collaboratore di giustizia, dentro e fuori le sbarre ci si può aspettare di tutto”.
A far aprire l’inchiesta era stato il direttore del carcere Sergio Romice che, sentita la vittima e verificato il referto medico, aveva informato la procura di Sulmona di quanto denunciato. Poi nel corso delle indagini sono emersi altri particolari e oggi, durante il processo, ai “monaci” è stato dato nome e cognome. “Si è aperto il vaso di Pandora – continua l’avvocato – ed è giusto, anche per rispetto del lavoro degli agenti penitenziari onesti, che sulla vicenda dei monaci si faccia chiarezza.