Vorrei iniziare da quando portavo i calzoni corti per raccontarvi la mafia e la sua metamorfosi. Ma ci rinuncio ed evidenzio soltanto che quel mondo degli anni 50/60 non era poi tanto diverso da quello che, poi, mi sono trovato a contrastare.
E facendo un parallelismo tra i decenni, non posso che rimarcare un dato: il rapporto tra mafia e politica era ed è l’espressione di un potere consolidato, un potere di “mutuo soccorso” i cui interessi sono noti e molteplici. L’empatia tra uomini d’onore e politici era così platealmente esibita che tutti noi ne accettavamo l’esistenza. Insomma una presa d’atto a furor di popolo. Del resto, basta sfogliare le cronache dei giornali, non tanto vetuste, per accorgerci che abbracci e baci sono stati ampiamente divulgati: persino tra personaggi politici che hanno le sorti del Paese. Ho fatto riferimento agli anni 50/60, perchè è stato un periodo in cui l’armonia tra Cosa nostra e politica era pacificamente conclamata.
Poi, sono apparsi sulla scena alcuni magistrati e investigatori che hanno rotto gli equilibri. Magistrati, poliziotti e carabinieri, non ascoltando il leitmotiv “cu tu fa fari”, ovvero l’invito ad omologarsi, chiudendo gli occhi innanzi a tanto strapotere, non hanno esitato a porre in gioco la propria vita. La cosa raccapricciante è che finanche “il collega” accanto ha tramato verso chi non aveva accettato l’invito “cu tu fa fari”. La locuzione di Ninni Cassarà “siamo morti che camminano” sintetizza non solo l’amarezza di constatazione dell’assenza dello Stato, ma anche la presa d’atto che “morire per combattere la mafia si può”.
Lo spirito di servizio aleggiava in quei meravigliosi uffici della Mobile palermitana di Cassarà. Noi sbirri e magistrati non cercavamo glorie, volevamo solo rendere Palermo una città degna di essere padrona di se stessa e non martoriata e calpestata da un pugno di mafiosi e spregevoli politici. E badate che non intendo compiere un distinguo se affermo che il sangue di Siciliani – sbirri o magistrati – è stato versato copiosamente.
E, dunque, viene spontaneo chiedersi: perché magistrati e poliziotti Siciliani sentivano la necessità di stroncare la mafia? Mentre altri siciliani, invero, convivevano con essa? Se è vero che ognuno di noi accettava di morire è altrettanto vero che volevamo caparbiamente “Vivere per annientarla”. Ogni “caduto” faceva crescere in noi la volontà di continuare.
Oggi rivedo per intero la nuda meschinità di politici il cui unico intento non era “aiutarci” a sopravvivere, ma renderci la vita un inferno: inferno rappresentato dai colleghi e magistrati che seppellivamo. Quanta ipocrisia prodotta su scala industriale nelle parole pronunciate nell’occorso funesto dai cosiddetti politici che, dopo aver girato l’angolo, siglavano accordi con gli uomini punciuti. E che dire dei “sassolini” che con altrettanta disonestà si toglievano dalle scarpe, cibandosi di quel sentimento vile che si chiama vendetta. Già la vendetta! Vendetta perché avevamo avuto l’ardire di toccare i “santuari”: avevamo commesso il delitto di lesa maestà.
L’apoteosi dei “sassolini” si è manifestata nei confronti della DIA. Ideata e voluta da Giovanni Falcone è morta appena nata. L’intento di Falcone era accorpare tutte le strutture investigative in un solo organismo sovranazionale, capace di incidere davvero contro le mafie. Invece, le neonata DIA si era occupata anche di personaggi poi divenuti “padroni” d’Italia ed è per questi motivi che l’esercizio” dei sassolini” è stato usato. “Morire per combattere la mafia si può! Vivere, per annientarla si deve!” non era uno slogan: era il metro di misura della nostra dignità di Uomini, consci che la nostra forza era l’onestà.