Ci eravamo rassegnati, noi familiari di Giuseppe e Paolo Borsellino, gli imprenditori di Lucca Sicula uccisi da cosa nostra nel 1992 a causa della loro schiena dritta, a restituire loro l’onore della memoria al di fuori dalla aule di giustizia, che dopo un ventennio ci avevano dato solo il killer di mio nonno Giuseppe, Emanuele Radosta; niente mandanti e niente di niente rispetto all’omicidio di mio zio Paolo, dalla cui morte il prossimo 21 aprile saranno trascorsi 21 anni. Avremmo rimediato noi parlando con la gente, raccontando all’Italia intera chi erano questi due uomini guidati non dal coraggio ma dalla dignità. Ci eravamo rassegnati ad accettare, dopo le beffe processuali, anche la revoca del riconoscimento di vittima innocente della mafia a mio zio Paolo; nessuno dei miei familiari aveva la forza di combattere ancora, non contro la mafia, ma contro la cieca burocrazia. “Diamoci da fare per raccontare la verità in giro, sui giornali, in tv, sui libri” ci eravamo detti.
Essere vittima innocente della mafia vuol dire che, alla luce di indagini approfondite, non risulta alcun legame con ambienti criminali. Che la vittima è innocente e cristallina, uccisa per la propria onestà o per sbaglio. E vittime innocenti della mafia, mio zio e mio nonno, lo erano stati riconosciuti immediatamente. Per tutti gli uffici essi erano morti per difendere con le unghie e con i denti la loro azienda di calcestruzzi dagli appetiti mafiosi.
Poi, nel 1998, la Prefettura di Agrigento comunica che la posizione di Paolo necessita di approfondimenti, e nel 2001 ad egli viene revocato il riconoscimento. La ragione è molto semplice: in seguito all’esame di un collaboratore di giustizia, Salvatore Inga, la Direzione distrettuale antimafia di Palermo (competente su Agrigento) si convince che mio zio Paolo sia stato ucciso perché poteva aver avuto un ruolo nell’assassinio di un boss di Villafranca Sicula, Stefano Radosta, che, secondo il pentito, pretendeva il pagamento di un debito risultato poi inesistente.
La DDA, celerissima nell’avvalorare le propalazioni del “prezioso” collaboratore, tralascia però di comunicare alla Prefettura che le dichiarazioni di Inga vengono considerate assolutamente inattendibili con sentenza del 26 luglio 2003 della Corte di Assise di Appello di Palermo, confermata con sentenza della Suprema Corte di Cassazione n. 4652/05, che assolve Mario Davilla, Calogero Sala e Giuseppe Maurello dall’omicidio di mio nonno Giuseppe; tutti assolti proprio perché quanto dichiarato dal pentito non merita alcuna credibilità: “il giudizio di ‘intrinseca attendibilità’ sbrigativamente formulato dai primi giudici in ordine all’intero racconto di Inga, appare non tenere minimamente conto dell’effettivo contesto emerso dalle indagini svolte dagli inquirenti ancora prima della uccisione del Borsellino e di altre emergenze processuali di segno opposto” scrivono i giudici di Appello. Dunque mio zio rimane una vittima “non” innocente nonostante il suo accusatore sia stato sconfessato su tutta la linea e non esista nient’altro sul suo (cristallino) conto. Appare scontato come la ragione di tutta questa manovra mafiosa, che ha avuto Inga come suo strumento, fosse quella di cancellare il sacrificio fatto da due persone per bene, infangando la loro memoria.
Siamo rimasti in silenzio per otto anni. Nessuno di noi se la sentiva più di immergersi ancora una volta nelle carte per dimostrare la totale innocenza di mio zio Paolo. Ci eravamo, semplicemente, rassegnati. Fino ad oggi. Ci siamo guardati in faccia e abbiamo deciso di ricominciare, abbiamo capito che la nostra battaglia non poteva finire così. Così dopo un lungo lavoro di studio delle sentenze, delle note della DDA e della Prefettura, abbiamo presentato pochi giorni fa un corposo ricorso contro quella che, stando proprio alle sentenze, è una colossale ingiustizia condita da superficialità nel momento in cui, venuta a galla la verità, nessuno si è preoccupato di riabilitare mio zio Paolo e presentare delle scuse ai suoi familiari.
Noi familiari siamo colpevoli di aver fatto trascorrere otto lunghissimi anni prima di reagire. E di questo dobbiamo scusarci in primis con mio zio Paolo. Abbiamo lasciato che la sua memoria venisse infangata da un pataccaro vestito da collaboratore di giustizia. Ma eravamo, tutti noi, impegnati a sopravvivere a quanto era accaduto vent’anni prima.
Ora che abbiamo iniziato, non ci fermeremo più fino a quando mio zio non avrà quello che gli spetta, ovvero il riconoscimento di vittima innocente della mafia.
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