Come ai tempi di Woodcock. Potenza si vendica con un triplo salto mortale, restituisce la cattiva coscienza a uno Stato avvertito come nemico da cui teme di essere soppressa, dà uno schiaffo a Matera, sorella fulgida mai accettata, le ruba la scena e gode, perfida e beffarda, del suo potere di ostracismo giudiziario.
Ci voleva un giudice a Potenza per restituire, fredda e lucida ritorsione, il “memento mori” a un presidente del Consiglio al quale la città e la sua provincia l’avevano giurata dai tempi di quella battuta infelice mai dimenticata. É iniziato tutto in quel momento, da quelle due parole che ancora bruciano, essere considerati “quattro comitatini”, chi noi? Noi che ti diamo, diamo all’Italia e tu, caro Matteo, ci ripaghi con disprezzo. Proprio come fecero i francesi, quelli di Total, nell’altra inchiesta sul petrolio, ancora non terminata, quando in una telefonata poco al riparo si divertivano a considerare pecorai i potentini. Guai gliene colse, per mano del pm biondo.
Il disprezzo ha generato l’indistinto, il caos della ribellione. In un tempo difficile dove i bisogni aumentano e dove sapere di abitare in un Texas senza toccare con mano la propria parte ha innervosito tutti, a cominciare dai sindaci della Valle, insaziabili.
Difficile tenere la barra dritta tra chi urlava e chi poneva un ragionamento serio, e cioè che il petrolio è una risorsa che va governata ma sfruttata. Difficile anche spiegare che i benefici diffusi provenienti dalle royalty non sono immediatamente percepiti, come la sanità, l’università. Il Governo andava avanti con la sua politica energetica ancora più spinta di quella di Passera, mettendo in discussione l’architrave costituzionale, lasciava la palla di fuoco del dialogo con la gente nelle mani del vertici della Regione, saltava – il premier – sistematicamente la Basilicata nei viaggi al sud, piombava a Melfi ma per fare un favore a Marchionne e si precipitava a Potenza ai funerali di Luongo, l’unico segretario regionale del suo partito che gli aveva resistito, perché proprio così funziona la narrazione del colpo di scena intelligente e magari si parla meglio in elicottero col capo dell’opposizione, Roberto Speranza, che è sempre di Potenza. Maledetta Potenza. Tempo verrà. E il tempo è venuto, come quello di Vallettopoli, come quello del Re. Lo schiaffo dalla città che si confonde, Potenza, Cosenza, questo Sud che si ostina a non morire.
L’inchiesta di Potenza aiuta a capire il contesto dei tempi che viviamo, proprio come la bella vita di puttane e fotoricatti raccontava il perimetro del potere del Cavaliere. Un contrappasso. Dal tetto d’Italia meno glamour che possa esserci, dove persino si arriva a pensare che la vittoria di Matera capitale della cultura sia stata uno scambio di compensazione per gli accordi sul petrolio, dove l’ambasciatore inglese rivendica in trasparenza l’azione di lobby per lo SbloccaItalia a favore delle aziende al servizio di sua maestà, arriva oggi la botta di un’inchiesta che in verità non potevano non conoscere. Se fate il calcolo di tempo tra i primi articoli del Quotidiano (2013), sia quelli su Corleto sia quelli su Viggiano, ci siamo con la durata delle indagini preliminari. Questo dimostra però anche il livello della tracotanza dell’impunità, o dell’ingenuità, se volete. Le intercettazioni delle conversazioni tra la Guidi e il marito sono, ovviamente, successive a quella data. A leggere la lettera che l’ex ministro ha inviato ieri al Corriere ci sono almeno due cose che meritano di essere chiarite.
Un’inchiesta, dunque, ben nota. Difficile dunque, a meno di dietrologie piuttosto ricorrenti nei sospetti, sostenere la tesi di un’operazione a orologeria in vista del referendum. Che se ne possano avvantaggiare quelli del Sì, è un dato, un effetto, a riprova di come lo scontro sociale e politico in Basilicata da quasi due anni si giochi sul terreno ambientale. Che importa poi che si confonda una piattaforma con una trivella.
Resta il copione scontato di un’opposizione politica ma, soprattutto, resta un’inchiesta che restituisce una realtà tremenda. Certo c’è qualche dubbio (1. unire i due filoni d’inchiesta appartiene a una cultura giuridica della pericolosità e dell’emergenza sociale e non del fatto; 2)il reato di traffico di influenze farà la fine del concorso esterno in associazione mafiosa; 3) il sistema Vicino bell’incasso elettorale ha avuto, non è stata neppure rieletta sindaco), ma i reati ambientali sono il vero allarme che la classe dirigente lucana deve affrontare con trasparenza e scelte drastiche.
Perché sia chiara una cosa: il governo Renzi resisterà anche a questo terremoto, così come ha resistito allo scandalo Expo alla vigilia dell’inaugurazione dell’esposizione universale. In questo ha ragione Claudio Velardi, sia pure egli esprima una posizione di parte: Renzi, che ci piaccia o no, è l’ unico leader riconosciuto in Italia finora. Più complessa invece la gestione degli effetti dell’inchiesta a livello locale. Farebbe bene il premier a non rinunciare alla visita in programma a Matera. Sarebbe, anzi, l’occasione giusta per parlare finalmente a questa parte d’Italia delle cose che a loro appartengono.
Quanto alle compagnie. Total è stata capace di totalizzare (è il caso di dire) ben due inchieste prima ancora di entrare in produzione in Basilicata.
Eni? Siamo all’ennesimo capitolo di una lunga storia di uno stato parallelo che in Basilicata ha avuto per anni un unico interlocutore da cui si sentiva garantito, la Regione. Il dialogo con i lucani? Cosa volete che possa contare una piccola regione rispetto ai problemi del mondo?
Quest’inchiesta dice, ancora una volta, che i magistrati suppliscono a un vuoto. E restituiscono una verità che confusamente un territorio vorrebbe conoscere. Una devianza patologica. Sarebbe persino ozioso fare il compito delle responsabilità. Certo fare i fighi sponsorizzando gli ultrafighi dei festival del giornalismo e fare la cresta sullo smaltimento dei rifiuti come una squallida conceria di similpelle di Solofra è un delitto, al quale caro Bardazzi, mi auguro si possa reagire con un documentato twittaggio. Ne saremo tutti rassicurati.
Poi considerateci pure come i Dakota. Sono 200 in tutto, ricordava ieri Flavia Perina. “A cavallo contro un oleodotto che attraversa il Missouri e minaccia la loro acqua. Di sicuro battaglia irrazionale: l’oleodotto sono soldi, posti di lavoro, energia. Di sicuro battaglia stupidamente romantica (gli indiani? Nel 2016? A cavallo?). E proprio per questo una delle battaglie che dividono il mondo: quelli che dicono “che belli” e quelli che dicono “che idioti”.
Lucia Serino