Gli italiani sono delle capre, e dato che come tali si sentono capre dignitose se ben vestite e benpensanti, proviamo ad usare un linguaggio e seguire un ragionamento anche banale per capire perché stiamo perdendo una battaglia già vinta: quella del marketing territoriale sfruttando il mondo digitale. Pur essendo noi ricchi di risorse e creativi, specialmente a Sud, non capitalizziamo su questi fattori di crescita del progresso umano, queste cellule staminali del recupero di società ed economia meridionali.
Sì, perché qualche strumento per rilanciare l’economia del mezzogiorno – o meglio per non mandarla mai in crisi – lo abbiamo a portata di mano da millenni, eppure non solo non lo sfruttiamo (più) pienamente, ma da un secolo e mezzo lo calpestiamo, lo lasciamo in balia di delinquenti endogeni ed esogeni, lo bistrattiamo con un’indifferenza, o peggio, un’ignoranza straordinaria. Sto parlando dell’immenso tesoro storico, artistico, architettonico e gastronomico che il Sud può vantare. Decine di migliaia di attrattori e ‘keyword’ che allettano navigatori web, potenziali ‘buyer’ che online fanno le proprie scelte di viaggio.
Eppure negli ultimi tempi il declino del ‘reach’ della nostra cultura nel mondo è evidente (http://www.newmediatrendwatch.com/world-overview/91-online-travel-market?showall=1) aiutato da campagne mediatiche italiane ed estere di dubbia obiettività (allarmismi notoriamente costruiti ad arte o semplicemente autolesionisti) e dalla nostra ormai cristallizzata incapacità a produrre più cultura egemonica. Un ‘reach’ depotenziato soprattutto dai mega-sprechi dell’ultimo decennio che ha visto andare in fumo milioni e milioni di euro destinati a potenziare la visibilità degli attrattori del paese tramite portali turistici nazionali, regionali e locali e a dotare la ricettività italiana della sua strategia e ossatura digitale. Riuscendo nell’intento… l’eTaja sarebbe stata imbattibile sul mercato del turismo online. Queste furono le intenzioni … i risultati sono nella peggiore tradizione delle opere pubbliche italiane. Nulla, neppure misere cattedrali nel deserto.
Non si tratta “solo” o semplicemente del fatto che l’Italia abbia l’abitudine a ‘non fare bene col bene comune’ neppure nel mondo virtuale e che possegga il più ampio patrimonio culturale a livello mondiale con oltre tremila musei, duemila aree e parchi archeologici, oltre 4000 prodotti agroalimentari tradizionali e 49 siti Unesco. Come noto a chi si occupa di brand reputation – e a chi ha buon senso – la nostra fortuna è la nostra rinomata cultura, cui stiamo negando la ‘fama’: l’immagine, per quanto stereotipata ma anche per questo estremamente diffusa e ‘navigabile’, del nostro paese, dei suoi paesaggi, dei suoi prodotti enogastronomici, della sua storia. Basti pensare cosa hanno rappresentato e cosa tuttora rappresentano nell’immaginario collettivo globale città come Venezia, Napoli, Firenze, Roma… L’industria culturale vive di modelli idealizzati di vita sociale, ampiamente conosciuti e facilmente sfruttati e sfruttabili in film, romanzi… La cultura storica di città ‘tanto greche quanto terrone’ come Siracusa, Elea, Heraclea, Neapolis, Paestum, Cuma – che influenzarono persino Atene e Roma rendendole belle oltre che solide- fu la radice staminale del progresso umano. Ed oggi accade che quel reach storico-sociale-culturale-economico-archeologico-paesaggistico va scemando sotto i colpi dell’inettitudine della classe dirigente e dell’ignoranza di un popolo. Se non siamo più in grado di produrre cultura ‘alta’, almeno dovremmo rispettare e capitalizzare su quanto ereditiamo. Pizza, pasta e mandolino, ma anche la torre di Pisa, il Colosseo di Roma, i mille volti di Napoli e le mille risorse di Venezia che non è quel circo postmoderno che vediamo da qualche decennio per la gioia dell’obeso turista in calzette o quello che rimane di Pompei … a Pompei, le verdi distese toscane, l’Arena di Verona, Ponte Vecchio e gli Uffizi di Firenze, i trulli pugliesi, la Valle dei templi di Agrigento… i primi ad averli dimenticati tutti questi attrattori siamo noi. A non sfruttarne l’appeal e la capacità di ‘farsi trovare sul web’, unendo semplici tecniche di marketing, stiamo causando vari problemi alle generazioni a venire:
- il diminuire delle visite nei siti archeologici ne accelera il decadimento e l’abbandono – mentre la produzione video e riproduzione mercificata di interi siti archeologici altrove è in costante crescita
- il diminuire della domanda verso produzioni tipiche porta gli artigiani ad abbandonare il mestiere – poi si producono pizze e mozzarelle ovunque senza licenza e bevande gassate dai nefasti effetti anche qui da noi, ma solo rigorosamente sotto licenze e royalty a fiumi verso i paesi d’origine
- il diminuire dei suddetti flussi depaupera economicamente il territorio – e con l’impoverimento viene il decadimento civile e ambientale e i giovani emigrano
Orbene, di immaginari turistici strafamosi, acclamati e ben noti in tutto il globo ne abbiamo a bizzeffe. Ora pensate: se questi immaginari creano già di per sé il desiderio, rendono cioè una località attraente, spingendo milioni di persone in tutto il mondo a concretizzare un progetto di viaggio nel nostro paese, cosa succederebbe se moltiplicassimo all’infinito questi simboli? Rendiamoci conto che le multinazionali spendono miliardi di euro per creare prodotti appetibili attraverso dispendiosi cicli di R&D e altrettanti miliardi per farli piacere attraverso ridicole pubblicità con donnine e guitti. Noi abbiamo, o meglio avremmo, un vantaggio competitivo enorme sulle multinazionali che si sperticano a vendere pizze di plastica surgelate a noi che dovremmo essere piazzisti di pizze vere…
Banalizziamo per rendere l’idea. Da anni mi sono impegnato personalmente a martellare fino alla noia istituzioni, CCIAA, Università e imprese sul fatto che la vera priorità per il paese sia insegnare alla gente anche comune ad amare e riconoscere ogni attrattore culturale e turistico che la circonda, recuperando spesso identità perdute, a saperlo descrivere anche su un piccolo blog e ad attrarre prima mero interesse, poi visite fidelizzate, traendo denaro da chi acquista una ‘esperienza italiana’, un viaggio in queste terre, un prodotto tipico, ecc. Un ciclo virtuoso tutto sommato semplicissimo e davvero poco dispendioso da generare. Le decine (in realtà sono centinaia, ahimè) di milioni di euro destinati ai portali turistici e bruciati da una classe dirigente notoriamente ‘digitalmente diversamente abile’ sarebbero stati sufficienti ad assicurare decenni di benessere al paese se solo avessero censito e mappato, descritto e tradotto, messo online e reso reperibile l’enorme patrimonio eTajano.
Questo processo di valorizzazione è stato molto parziale, ma qualche buona pratica è per fortuna emersa (ad es. www.viaggiareinpuglia.it/). Il gioco vale la candela anche perché, se aspettiamo delle iniziative politiche mirate a livello nazionale o regionale, siamone certi, sarà forse l’eutanasia della ‘Girlfriend in a coma’.
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