Pummarole di tutto il mondo, uniamoci.
Eh si, perché non se ne può più di questi spot negativi sulle pummarole nostre, che siano Pachino siciliani o San Marzano dell’Agro Sarnese-nocerino, che siano pomodorini di Manduria o dei Belmonte di Calabria. Sì, è vero, ci sono terre, nella terra dei fuochi, inquinate. Il servizio delle Iene dove si è dimostrato che un pomodoro colto lì è ricco di veleni, con la conseguente e ignobile raccolta firme contro gli agricoltori della zona, non prova mica che tutti i nostri prodotti sono inquinati? Ad esempio gli agricoltori storici tra Caivano e Frattamaggiore, che lavorano quelle terre da più generazioni, anche da settanta, ottant’anni – e sono pronta a condurvi da loro – vorrebbero che le Iene andassero ad analizzare anche i loro, di pomodori. Per dire basta al boicottaggio che ormai arriva da ogni parte, soprattutto dalla grande distribuzione del nord, manco a dirlo, che non compra più nulla coltivato “al di sotto del Volturno” come ha detto a uno di loro, rinviando i nostri prodotti al mittente, un manager di una grande catena di distribuzione con sede legale nella periferia milanese.
Perché diciamoci la verità: di mucche pazze e di aviarie è sempre tempo. Ma se è possibile è sempre tempo anche di sputtanare il sud. Insomma: alla fine credete davvero che quello delle Iene sia stato un servizio onesto? Credete davvero che tutto quello che si produce in Campania o al Sud, come ad esempio l’azienda nordica Pomì pare sottintendere nel suo nuovo spot dove precisa che loro imbottigliano solo prodotti padani, non sia sicuro? Avremmo mangiato veleno, tutti, per decenni (almeno dal 1996 a giudicare dalle audizioni del pentito Schiavone secretate dall’allora ministro dell’Interno Giorgio Napolitano e desecretate qualche giorno fa). Saremmo già morti.
Sia chiaro, qui non si nega l’emergenza. Anzi: si è impegnati nella lotta per riappropriarsi del territorio sottraendolo alla commistione micidiale stato-camorra-aziende nordiche, una volta e per sempre. Si è impegnati ogni giorno, ogni minuto possibile, ogni istante, con la richiesta in ogni sede di bonifiche trasparenti, monitoraggi continui, nessuna gestione commissariale imposta dall’alto, presidi seri e sistemi di controllo moderni ed efficaci. Però da qui a sputtanare tutto il sistema agricolo meridionale ce ne passa. E non è accettabile.
C’è poi dell’altro. Una postilla, ma significativa. Qualcosa che sfugge ai bravi manager nordici della Pomì, così come ai giornalisti della redazione, comunque Mediaset, delle Iene. Ed è il rapporto carnale, morboso, che molti tra noi cittadini del Sud abbiamo nei confronti delle pummarole: i nostri rivenditori di fiducia, i nostri pomodori speciali (i miei quelli sorrentini da insalata e il piennolo di una certa cooperativa dop vesuviana), le buatte che ancora si fanno in molte famiglie, in molte case, a impegnare il fine estate delle donne, rito quasi pagano, esclusivamente femmineo (e qui si benedice la suocera). Come si possono spiegare certe cose? Certe tradizioni? Certe abitudini ormai parte della nostra identità?
Che pubblicizzi, allora, la Pomì, i suoi pomodori coltivati nella Pianura Padana. Poco importa che molte inchieste dimostrino che c’è più inquinamento lì che nella terra dei fuochi. “Bisogna dare risposte alle psicosi dei consumatori” si giustificano loro. E diamole, allora, queste risposte ai consumatori. Diamole. Rendiamo trasparenti le zone inquinate, procediamo ad analisi di tutte le zone, in tutta Italia però. Cambiamo le certificazioni, oggi un mero esercizio burocratico (leggi Global G.A.P.). E facciamo immediatamente emergere tutti quei territori del Sud, e sono ancora tanti, ancora in buona, buonissima o discreta forma. Fermiamo questa ennesima psicosi. Questo ulteriore “sputtanapoli”, come lo chiamiamo a casa mia.
Quanto ai nostri riti femminili “pummaroleschi” continuiamo a tramandarli, combattendo in più postazioni. In piazza, per difendere la nostra terra, ma anche dietro ai fornelli – che siamo grandi cuoche – e a tavola- che ci piace magnà.
Combattiamo, insomma, per il Sud ovunque e sempre, per mantenerlo vivo e farlo vivere, per difenderlo da chi ci ha colonizzati come da chi vuole sputtanarci. Perché poi senza donne (e forse anche senza pummarole) non c’è rivoluzione, si sa.
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