Delitto passionale. Un ossimoro che accompagna il nostro linguaggio quotidiano e che risuona come una lama affilata che infligge nel corpo della vittima l’ultima coltellata, quella dalla quale non esce più sangue caldo perché ormai la sua vita è svanita chissà dove.
I giornali lo scrivono. I telegiornali lo dicono. La popolazione se ne convince.
Il tutto può essere racchiuso in due sole parole: tabù e femminicidio. Le uniche appropriate.
Una donna che subisce violenze si reca al commissariato della sua città e con grande forza denuncia il suo compagno che l’ha picchiata. La fanno parlare, le promettono supporto e a volte le chiedono: “Ma tu cosa hai fatto per provocarlo?”.
Giovani adolescenti si ritrovano orfani: colui che li ha messi al mondo ha massacrato la donna che diceva di amare. Quegli stessi giovani sono abbandonati dallo Stato.
Il carnefice viene rinchiuso in una cella dove nessuno lo forma perché guarisca. Per indulto esce dal carcere e se non è riuscito ad uccidere la sua compagna questa volta ce la fa’.
Questi sono i tabù e i femminicidi del nostro Paese.
Le industrie producono quotidianamente, la borsa valori sale e scende, ma nessuno pensa alle menti che stanno cadendo nel baratro più assoluto: basterebbe la formazione, l’educazione per permettere alla nostra società di fare un passo da gigante.
La città di Matera ha cercato di “far sentire la sua voce” con una mostra fotografica intitolata Don’t touch me.
Claudia Venezia, Terry Cotugno e Brunella Digregorio hanno cercato di immortalare il dolore delle vittime alle cui ferite visive si aggiungono quelle interne, quelle psicologiche.
Quelle donne non potevano parlare. Quelle donne dipendevano affettivamente ed economicamente dal marito che pilotava la loro vita. Quelle donne ogni giorno indossavano una maschera e coprivano i lividi. Quelle donne li giustificavano perché credevano che quello fosse amore. Quelle erano 81 donne simboleggiate da altrettante paia di scarpe rosse che i cittadini materani hanno offerto volontariamente per ricordarle. Sotto di esse un foglio con sopra scritti l’età e il nome reale delle vittime che dall’inizio dell’anno al momento della mostra, solamente in Italia, hanno smesso di respirare.
Bastava seguirle per raggiungere la mostra. C’è stato chi non è riuscito a proseguire il cammino e visionare gli scatti. Chi c’è l’ha fatta è andato via turbato e chi, non avendo parole, ha lasciato un commento sul diario lì presente. Uno di questi diceva: “Foto bellissime…ma ora io…cosa faccio? ”.
Le tre ragazze hanno cercato di rappresentare tutte le forme di violenza. Le foto del backstage, poi, racchiudevano il lavoro di preparazione fatto di risate ma anche di silenzi profondi perché le scene toglievano il fiato anche a loro. Tanti si sono resi disponibili per mettersi davanti l’obiettivo ma molti hanno cambiato idea poco prima.
Brunella Calia, una delle fondatrici dell’Associazione Khaleh che occupandosi giornalmente di donne maltrattate ha voluto supportare la mostra, ha detto: “ La gente ha paura di identificarsi perché anche la donna più fortunata che non ha mai subito violenze ha comunque patito un tipo di discriminazione”.
La nostra società ha bisogno di vivere senza veli, di guardare in faccia la realtà, di diventare una vera società fondata sul principio della collaborazione.
Aiutiamoci per crescere mano nella mano.
Perché ciascuna donna capisca che ha una propria individualità piena di risorse. Perché basta soltanto sapersi amare.