Ma che Paese è un Paese che non riesce a salvare un patrimonio storico che tutto il mondo ci invidia come Pompei? E che Paese è un Paese che non riesce a salvare dall’estinzione uno dei più grandi mammiferi europei che, ancora oggi, vive a poco più di un’ora di auto da Roma?
L’accostamento non deve sembrare esagerato. Dietro i crolli di Pompei e lo stillicidio che colpisce l’ultima popolazione di Orso bruno marsicano vi è la stessa incapacità di gestire un patrimonio straordinario che ci è stato affidato e che non riusciamo a tutelare. Ed allo stesso modo vi è l’insipienza di chi non è in grado di valorizzare dei “beni” capaci di attirare centinaia di migliaia di visitatori e turisti.
Dal 1970 fino a pochi giorni fa, quando l’Orso Stefano è stato trovato morto sul versante molisano del Parco nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise, sono stati un centinaio gli orsi marsicani ritrovati morti. Un numero impressionante se si pensa che le stime parlano di una popolazione rimanente di soli 50/60 esemplari, così pochi da far dubitare della reale possibilità di salvare questo animale dall’estinzione.
Questa popolazione, infatti, isolata da secoli dalle altre popolazioni delle Alpi e dell’est Europa (a cui il patrimonio genetico la avvicina) rappresenta una sottospecie a se stante. Un tempo era diffusa dalle Marche all’Appennino Dauno, ma, negli ultimi secoli, è stata interessata da una preoccupante contrazione e solo grazie ad interventi per la sua protezione, è riuscita ad arrivare ai nostri giorni.
Il bracconaggio a volte diretto e a volte indiretto (molti orsi finiscono per mangiare bocconi avvelenati o cadono in trappole e lacci predisposti per altri animali), la caccia ad altre specie animali che arreca grande disturbo ai pochi esemplari rimasti, la riduzione del loro areale sono le cause della morte di questi splendidi animali, la cui conservazione si gioca sulla corretta gestione di quella porzione dell’Appennino compresa tra le montagne di Venafro ed il Volturno a sud ed il Parco Nazionale dei Sibillini a nord: l’areale potenziale per l’Orso bruno che deve essere necessariamente preservato per consentire la conservazione di questa specie.
Si deve fare di più per eliminare e reprimere il bracconaggio, per gestire le attività zootecniche in modo da eliminare o contenere le situazioni di conflitto che possono crearsi, per mettere in atto interventi forestali che consentano di preservare gli habitat forestali adatti all’orso, per valutare correttamente (e se il caso impedire) la costruzione di qualsiasi infrastruttura progettata nei luoghi dove l’orso trova rifugio.
Tutte azioni che ben si conoscono perché da anni sull’orso si spendono milioni di euro in progetti finanziati dall’Unione Europea ed in strumenti di pianificazione e tutela (da ultimo il PATOM, Piano d’Azione per la Tutela dell’Orso Marsicano). Strumenti utilissimi che propongono azioni che però poi necessitano di essere realizzate concretamente e che invece restano sulla carta.
La Regione Abruzzo, da un lato, ad ogni orso ritrovato morto, fa grandi proclami sulla conservazione di questo simbolo del nostro territorio, dall’altro, nella gestione quotidiana del suo patrimonio faunistico, mette in atto scelte che ne compromettono la tutela.
Lo ha dichiarato anche il TAR Abruzzo in una recentissima sentenza del luglio 2013 sul ricorso presentato dalle Associazioni ambientaliste WWF ed Animalisti Italiani che ha bocciato il calendario venatorio regionale 2012/13 proprio censurando, tra le altre cose, la “mancata protezione dell’Orso marsicano nell’intero areale di distribuzione individuato nell’Accordo PATOM”.
È poi necessaria un’azione di prevenzione e repressione dei fenomeni criminali che colpiscono l’orso. Non è possibile che fino ad oggi non sia mai stato individuato uno dei responsabili di così tanti uccisioni.
Nell’autunno del 2007 furono ritrovati l’Orso Bernardo e altri due orsi, oltre a tanti altri animali selvatici, uccisi da decine di bocconi avvelenati. Grandissimo fu lo sdegno in Abruzzo e in tutta Italia per un gesto così incivile: ebbene, per quelle morti non vi è stato nessun processo, ma neppure un rinvio a giudizio o un indagato. L’inchiesta giudiziaria è andata avanti per un po’ senza giungere a nessuna conclusione.
E questa impunità è il miglior incentivo a continuare a commettere reati. Senza contare che, grazie ad una legislazione estremamente permissiva, i responsabili, una volta condannati, rischierebbero l’arresto da tre mesi ad un anno al massimo o un’ammenda fino a 6.000 euro: pochi mesi di carcere (che neanche faranno perché si può ricorrere all’oblazione con estinzione del reato) e poche migliaia di euro per aver ucciso il frutto dell’evoluzione di centinaia di migliaia di anni.
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