Sembrava una serata come un’altra quella di sabato: la piazza era gremita di gente, i negozi erano affollati per i saldi, nei locali c’era la fila per ordinare una cosa da bere, sui marciapiedi c’era chi mi porgeva la mano per avere un soldo. Ma sapevo di non poter dimenticare, né volevo farlo. Le passeggiate avevano un sottofondo stridente, quello delle sirene che mi martellavano la testa. Speravo. La strada improvvisamente si illumina di azzurro e tutti seguiamo con lo sguardo quella luce colorata che sfreccia davanti a noi. Poi un uomo commenta ad alta voce : “Hanno trovato l’ingegnere, lo stanno portando all’ ospedale”. Un sospiro di sollievo e gli sorrido. Guardo l’orologio, ore 20.20. Quel maledetto palazzo era crollato alle 7.30 di mattina. 13 ore di agonia.
Proseguo pensando a quel travaglio e intanto continuo a sperare.
Entro in un tabacchino e il proprietario non alza neppure lo sguardo dallo schermo del computer e invece del classico: “Buonasera” mi sento dire: “Ritrovato vivo l’ingegnere”, poi continuando a tenere gli occhi fissi sulla notizie chiede alla moglie di servirmi, ma io neppure mi ricordavo più cosa dovessi acquistare. Immaginavo i familiari dell’uomo disperatamente felici e poi quelli di Antonella, disperatamente affranti.
Esco da lì con il mio sacchetto bianco pieno di caramelle e la serata sembra proseguire. Entro in un ristorante nei Sassi e pochi minuti dopo aver preso posto ed essere stata accolta dal sorriso smagliante dei camerieri sento un cliente esclamare : “Per come è profondo qui se crolla moriamo tutti!”.
No, quella non era una serata come le altre e forse neppure l’apparenza lo dimostrava.
Mi sentivo dannatamente in colpa: io ero seduta davanti ad una tavola imbandita di pietanza mentre dei grossi massi di pietra ti stavano schiacciando. Speravo e speravo; sempre, ad ogni boccone.
La nebbia avvolgeva la città, faceva freddo ma ero certa che niente avrebbe fermato quella folla di eroi che stavano scavando a mani nude per trovarti. Poi mi faccio coraggio e consulto i social network: lo stomaco mi comprime l’addome, deglutisco a fatica. Ultimo corpo ritrovato, l’unico senza vita: il tuo.
Tu, non ce l’hai fatta. Tu, sei stata uccisa. Ciascuno di noi dovrà denominare la tua tragedia con l’unico termine appropriato: omicidio. Se tuo marito non si sentirà più chiamare “amore” è soltanto perché ti hanno ammazzata. Se Adele non potrà più abbracciare la sua cara sorella è perché ti hanno ammazzata. E se stamattina non sei andata a lavoro è semplicemente perché ti hanno ammazzata.
Vi avevano assicurato che quelle crepe non avrebbero provocato stragi. Non avreste dovuto preoccuparvi di nulla e invece quelle false parole ti hanno assassinata.
Se chi ha fatto i sopralluoghi in quel palazzo avesse usato la stessa diligenza e cura degli eroi in divisa che sabato, appesi ad un filo con un caschetto in testa, ti cercavano tu ora saresti stata qui tra noi.
La tua famiglia ormai è come vico Piave: piena di cenere, massi, puzza di gas, urla, strazio. La tua famiglia è “affollata” di pietre di tristezza. Quelle di tufo hanno schiacciato te ed ora solo tu puoi sollevare quelle di dolore che sovrastano i loro cuori.
Ciao cara Antonella. Riposa in pace.
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