Basta con i don Abbondio! Questo il grido che a Falerna, nel gennaio del 2007, le Caritas calabresi avevano lanciato durante il Convegno dal titolo provocatorio: “È Cosa Nostra”. Una pastorale ecclesiale per l’educazione delle coscienze in contesti di ‘ndrangheta. Dobbiamo riconoscere con estrema amarezza, che per alcuni tale grido è rimasto inascoltato.
Lo scorso anno si sono registrati anche in Calabria rinvii a giudizio, intercettazioni imbarazzanti e dichiarazioni tese a difendere l’operato di alcuni noti ‘ndranghetisti da parte di alcuni sacerdoti che hanno creato – com’è ovvio – non poco sconcerto e molte polemiche. Sia “l’omelia sul perdono” pronunciata a settembre dello scorso anno a Polsi da Mons. Morosini, come al solito totalmente travisata, sia la nota pastorale di Mons. Nunnari pubblicata subito dopo, hanno suscitato un fecondo dibattito che il nostro Giornale ha saputo raccogliere.
Sono diverse le accuse mosse da più tempo alla Chiesa in questo pur delicato ambito: “Silenzio assordante”; concedere i sacramenti ai mafiosi; processioni e feste patronali gestite dalle varie ‘ndrine locali, ed altro. L’ultimo episodio è di appena qualche giorno fa: Raffaele Vitale, giovane sindaco in quota Pd di Parete, in Provincia di Caserta, si è sfilato la fascia tricolore non appena la processione religiosa cui stava partecipando si è fermata davanti all’abitazione di un ammalato parente del boss della camorra casalese Francesco Bidognetti.
Certo questi episodi provocano non poco disorientamento tra i fedeli e sono un’ulteriore dimostrazione di come abbiano ragione i Vescovi italiani che nel n.9 del documento pubblicato del febbraio 2010 dal titolo Per un paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno, annotano: «Si deve riconoscere che le Chiese debbono ancora recepire sino in fondo la lezione profetica di Giovanni Paolo II e l’esempio dei testimoni morti per la giustizia.
Tanti sembrano cedere alla tentazione di non parlare più del problema o di limitarsi a parlarne come di un male antico e invincibile. La testimonianza di quanti hanno sacrificato la vita nella lotta o nella resistenza alla malavita organizzata rischia così di rimanere un esempio isolato. Solo l’annuncio evangelico di pentimento e di conversione, in riferimento al peccato-mafia, è veramente la buona notizia di Cristo (cfr. Mc 1,15), che non può limitarsi alla denuncia, perché è costitutivamente destinato a incarnarsi nella vita del credente». Tra questi testimoni morti per difendere la giustizia e per combattere il male ‘ndrangheta, ricordiamo anche diversi sacerdoti e consacrati.
Nei giorni scorsi, grazie alla intraprendenza dell’arcivescovo Mons. Bertolone, l’aula magna dell’Università “Magna Grecia” di Catanzaro, ha ospitato il “Cortile dei Gentili”, iniziativa suggerita da Benedetto XVI, poi continuata dal cardinale Ravasi, con lo scopo di creare un spazio d’ incontro tra credenti e non credenti. Il tema dell’incontro era “Etica, religiosità, corresponsabilità”.
Entrambi i magistrati presenti come relatori, Pignatone e Prestipino, hanno messo in evidenza come la maggioranza dei sacerdoti calabresi e siciliani ritiene che ad occuparsi di temi come la mafia debbano essere la magistratura e le forze dell’ordine. Ben hanno ragione, dunque, i Vescovi italiani quando lamentano che sono in tanti a cedere alla tentazione di non parlarne o di parlarne non in termini corretti.
Una delle diverse conseguenze di questo atteggiamento, è che coloro che se ne occupano, vengano tacciati di essere dei “preti antimafia” o “specialisti antimafia”. Quest’ultima locuzione, ricorda quella usata da un grande scrittore qual’è stato Leonardo Sciascia che, a gennaio del 1987, uscì definitivamente dal “Politicaly correct” con una espressione che allora suscitò molte polemiche: “professionisti dell’antimafia”.
Chi propone queste riflessioni, anche se mai direttamente, si è sentito rivolgere espressioni simili, nonostante in molte occasioni offerte dai Media, ha precisato di essere semplicemente uno che si sforza, pur nei limiti delle proprie fragilità, di “fare unicamente il proprio dovere” che, a volte, deve necessariamente assumere il tono della denuncia, “uno degli aspetti della profezia” come ricorda il Beato Giovanni Paolo II.
Nella III e nella IV domenica di Pasqua, la liturgia della Parola ci ha proposto la figura del “Buon Pastore” secondo il Vangelo di Giovanni. Questi, quando vede il pericolo per il gregge che a lui è stato affidato, non se ne sta comodamente seduto dentro la propria abitazione (sacrestia). L’evangelista utilizza tre termini molto suggestivi che sintetizzano tutta l’esistenza della vita di Gesù descrivendo anche il suo essere pastore che “espone, dispone e depone” la propria vita per il gregge. Parafrasando il grande Bernardo di Chiaravalle, possiamo a buon diritto dire che “ogni epoca ha i suoi lupi rapaci e la nostra non ne ha pochi”.
La storia ci ha insegnato a riconoscerli anche attraverso nomi e cognomi: Hitler, Stalin, Pol Pot, Mussolini, Greco, Riina; Bagarella, Provenzano, Criaco, Nirta, Morabito, Strangio, Pelle, Pesce, Schiavone. Il cardinale Ravasi, nel suo intervento al convegno ricordato sopra ha ribadito che «Bisogna distinguere la fede dalla religione: la prima è il punto più alto della passione umana, è ricerca del senso ultimo dell’esistenza e della trascendenza. La religione, invece, è una sorta di comportamento globale e sociale, ma che può essere, in una forma completamente distorta, privo di fede, una sorta di involucro vuoto».
Ha inoltre evidenziato che è assolutamente necessario scongiurare il pericolo che incombe su molti consacrati: quello di essere dei “semplici funzionari del sacro”. Infine, il paradosso: «proprio in quei territori che hanno un’impronta fortemente religiosa c’è il rischio che si consumi un altro grande abuso: che la criminalità organizzata possa strumentalizzare una struttura fondamentale come la religione per finalità antitetiche ad essa.
È questo il momento in cui – secondo il porporato – si compie una vera e propria bestemmia, anche se magari si usano santuari, preghiere e forme espressive che appartengono alla religione». Queste considerazioni da sole valgono sia come monito a non abbassare mai la guardia da parte di nessuno, consacrati compresi, sia come condanna senz’appello di tutte quelle forme criminali già tante volte biasimate in precedenza dai Vescovi e definite come “piaga più profonda e duratura”; “vero e proprio cancro”; “tessitura malefica che avvolge e schiavizza la dignità della persona”; “che avvelenano la vita sociale”; “pervertono la mente e il cuore di tanti giovani, soffocano l’economia, deformano il volto autentico del Sud”.
«La Faida di Dio: il perdono»
I tanti pronunciamenti del magistero, sono più che sufficienti a chiarire quei dubbi e quelle imprecisioni, a volte del tutto gratuite purtroppo. La domanda che in tanti si pongono, allora, è proprio questa: “Come mai si registrano atteggiamenti diversi di molti sacerdoti rispetto al fenomeno mafioso?” Prima di tentare una risposta, alcune brevi considerazioni tese a fugare le argomentazioni di Isaia Sales, riportate anche nell’ultimo volume dal titolo: Atlante della mafie. Storia, economia, società, cultura, curato assieme a Enzo Ciconte e Francesco Forgione, circa il perdono. Intanto non è assolutamente vero che i Vescovi si siano pronunciati sull’argomento “solo a partire dagli anni settanta”.
Il primo documento della Conferenza Episcopale Calabra di condanna nei confronti della ‘ndrangheta, risale al 1916. Nel volume citato, inoltre, vengono pedissequamente riportate tesi (volutamente?) inesatte: “la violazione di alcuni comandamenti cha hanno a che fare con la violenza sugli uomini e sulle cose (non rubare, non ammazzare), non rende necessario riparare con atti concreti l’ingiustizia commessa ed il dolore procurato, così da annullare o attenuare l’ingiustizia commessa ed il dolore procurato, così da annullare o attenuare (laddove possibile) gli effetti negativi dei propri misfatti” (…) Il tragitto che si interpone nel mondo cattolico tra pentimento e perdono, tra colpa ed espiazione, è il più breve rispetto a qualsiasi altra religione”.
Come non dare ragione a Benedetto XVI che indicendo l’anno della fede nell’ottobre scorso ha invitato tutti a rileggere il Catechismo della Chiesa cattolica che da ragazzi, credo anche il Sales, magari abbiamo letto, chissà. Tanto per ricordare qualche numero: «La penitenza interiore del cristiano può avere espressioni molto varie. La Scrittura e i Padri insistono soprattutto su tre forme: il digiuno, la preghiera, l’elemosina, che esprimono la conversione in rapporto a se stessi, in rapporto a Dio e in rapporto agli altri.
Accanto alla purificazione radicale operata dal Battesimo o dal martirio, essi indicano, come mezzo per ottenere il perdono dei peccati, gli sforzi compiuti per riconciliarsi con il prossimo, le lacrime di penitenza, la preoccupazione per la salvezza del prossimo, l’intercessione dei santi e la pratica della carità che “copre una moltitudine di peccati» (1434). «La conversione si realizza nella vita quotidiana attraverso gesti di riconciliazione, attraverso la sollecitudine per i poveri, l’esercizio e la difesa della giustizia e del diritto, attraverso la confessione delle colpe ai fratelli, la correzione fraterna, la revisione di vita, l’esame di coscienza, la direzione spirituale, l’accettazione delle sofferenze, la perseveranza nella persecuzione a causa della giustizia. Prendere la propria croce, ogni giorno, e seguire Gesù è la via più sicura della penitenza» (1435). «La penitenza che il confessore impone deve tener conto della situazione personale del penitente e cercare il suo bene spirituale.
Essa deve corrispondere, per quanto possibile, alla gravità e alla natura dei peccati commessi. Può consistere nella preghiera, in un’offerta, nelle opere di misericordia, nel servizio del prossimo, in privazioni volontarie, in sacrifici, e soprattutto nella paziente accettazione della croce che dobbiamo portare» (1460). Altro che “tragitto breve”, chi si macchia di peccati gravi come l’omicidio, oltre al pentimento, subordinata all’assoluzione della colpa che non cancella la pena, perché questa è da scontare anche su questa terra, è richiesta da parte del penitente la disponibilità a “riparare” con le opere di carità per tutta la vita.
Il perdono, che viene concesso solo a queste condizioni, a tutti coloro che lo richiedono, è il primo dono del Risorto e «la vera faida di Dio» per usare una espressione cara a Mons. Schinella, titolo di un suo volume tradotto in diverse lingue. Ma è anche l’unica «faida» possibile ad ogni battezzato totalmente contraria alle faide di tipo mafioso. Coloro che appartengono alle associazioni criminali non possono in alcun modo accedere ai sacramenti, è stato più volte ribadito da diversi pronunciamenti magisteriali. Ciò che occorre e che risponde alla domanda iniziale, sono delle chiare indicazioni pratico pastorali da applicarsi senza distinzioni in ogni dove. Questo il senso ultimo del documento conclusivo del Convegno di Falerna.
Sarebbe auspicabile a tal proposito, magari formare un’apposita Commissione a livello Nazionale.
Infine, ricordo ancora ciò che il cardinale Ravasi ha detto circa il rapporto tra fede e opere e dell’impegno sociale dei credenti: «Laddove c’è corruzione e falsa religiosità, il vero credente deve mettersi in moto e adoperarsi per trasformare la sua fede in impegno etico e sociale. Non si può tacere limitandosi alla preghiera per chi sbaglia, non è questa l’autentica unione tra fede e religione: il credente deve entrare nella società e combattere le strutture di peccato del mondo».
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