Giorni fa, una bella rivista molisana che si chiama ‘Il Bene Comune’, ha organizzato una registrazione televisiva in un teatro, nel quale alcuni esponenti della società civile hanno raccontato il loro sentirsi e il loro non sentirsi ‘molisani’. Questo, più o meno, il testo del mio intervento.
Io non mi sento molisano. Io lo sono, per diritto di nascita e per eredità storica. Mio padre è albanese, mia madre è vòlgare, nel senso che viene dal Volga, Volgàre o Bùlgara, mio nonno Longobardo, mia nonna Normanna, e i miei zii sono Svevi e Albanesi.
Il molisano non esiste, perché è la somma di decine di popoli, e io sono quella somma e quel risultato.
Io non mi sento molisano perché il mio paese, come gran parte dei paesi non sanniti e non romani del Molise è stato fondato dai monaci. I monaci vi hanno stanziato le famiglie che lavoravano in schiavitù, che si chiamasse conduma o livellaria, ovvero la decima parte del raccolto da donare sempre e comunque al monastero o all’istituzione religiosa, poi diventata una chiesa, una confraternita, un seminario, un partito, un vescovo. Io non mi sento molisano perché sono un laico in una terra posseduta dai preti.
Eppure mi sento molisano perché da laico so riconoscere la tradizione. Riconosco la possente e millenaria cultura che la religione ha portato nei borghi medioevali rimasti intatti e poi abbandonati, il culto dei santi che pesca a piene mani dal paganesimo romano, normanno, svevo e longobardo. Riconosco i culti celtici, vichinghi, slavi, saraceni e spagnoli, riconosco l’eco dell’intera Europa e del bacino Mediterraneo, e mi riconosco in questa tradizione perché essa mi ha formato ed educato, e mi ha fatto stare al mondo, lontano dal Molise ma orgoglioso della mia origine.
Ma come si fa a sentirsi molisani quando la statura storica della nostra terra è stata calpestata da ogni sorta di padrone, padrone del feudo, del latifondo, conte, duca, capo di famiglia potente? Laddove finì la schiavitù dei monaci, incominciò quella dei balivi, dei nobili, dei feudatari e dei prepotenti. Ancora adesso le famiglie potenti e prepotenti mi governano e impediscono la mia emancipazione, impediscono lo sviluppo della mia cultura millenaria, distruggono le mie bellezze naturali, devastano con ogni sorta di ammennicolo leguleio le mie terre, i miei pascoli, le mie antichissime strade, i miei castelli e le mie cattedrali, riducendo persino la bellezza dell’agone politico a uno squallido gioco di potere tra studi legali.
Perciò mi sento molisano, come molisani furono coloro che si ribellarono alla prepotenza romana, i molisani che si ribellarono alle scorrerie dei Saraceni, a quelle degli Svevi, ai borboni nel 1647 e nel 1799, i molisani che si ribellarono ai Savoia nel 1860 e agli angloamericani nel 1943-44.
Mi sento molisano, unico popolo dell’Italia repubblicana ad essersi autodeterminato 50 anni fa, e ancora capace di ribellarsi contro le belle parole del positivismo razionalista, contro lo sviluppo, l’industria, l’europa, il turismo di massa e tutte le stupidaggini che ogni volta ci vengono a raccontare, che sono la parte peggiore e deteriore della civiltà occidentale, quella che vorrebbe segarci in due con un’autostrada, i suoi tir, i suoi autogrill, il suo combustibile fossile e suoi fast food.
Quando tutto questo sarà una realtà nessuno di noi si sentirà più molisano, perché tutti saremo cittadini del mondo, ogni nostro dialetto sarà spazzato via dalla lingua dei computer e dei televisori, e noi saremo i perfetti consumatori del nulla, sudditi, morti ammazzati nel nome di un progresso finto che ci avrà azzerato nel Pensiero Unico. Saremo allora non molisani, ma annientati componenti del Villaggio Globale.
Ebbene io invece sono, mi sento e voglio essere molisano, cioè ribelle, refrattario, testardo e conservatore, non del privilegio di pochi o del potere del re, ma conservatore del bene e dei beni comuni, di tutti, perché il molisano vero lascia intatto il mondo, così come lo ha trovato.
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